Venerdì 24 giugno a Monza, alle ore 21 presso il teatro Manzoni, la compagnia del Teatro degli Incamminati presenterà la prima di Processo e morte di Stalin, con regia di Andrea Maria Carabelli e con Franco Branciaroli nella parte del dittatore sovietico.
L’allestimento scenico avviene per la prima volta dopo il 1962, quando questa tragedia scritta da Eugenio Corti (l’autore del poderoso romanzo Il cavallo rosso) fu rappresentata a Roma per 13 volte e poi boicottata perché non allineata con le posizioni ideologiche allora dominanti: apertura della Dc verso il CentroSinistra, egemonia culturale del Pci, silenzio sui crimini sovietici, implicito disprezzo del magistero di papa Pio XII. Il drammaturgo era un outsider, e fu ostracizzato dalla repubblica delle lettere dell’epoca.
Oggi però si presenta l’occasione di riaprire la via a un autentico giudizio sul Novecento. La rappresentazione, che si replicherà sabato 25 e domenica 26 giugno, rappresenta un passo storico: voluta dai sostenitori di Corti, sostenuta dalla “Fondazione Costruiamo il Futuro” e “Il Cavallo Rosso” e con la partecipazione di studenti del Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza, ha colpito l’attore Branciaroli che ne parla in interviste sulla stampa come di un evento fondamentale dell’anno teatrale.
Quando il 3 aprile del 1962, a Roma, andò in scena la prima della tragedia Processo e morte di Stalin, correva un anno fatale per la storia della Repubblica Italiana: in politica, nasceva il “centrosinistra” dei Fanfani e dei Moro; nella vita civile, l’istituzione della Scuola media dell’obbligo diede l’inizio alle Riforme; nella Chiesa, papa Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Vaticano II. Ma era sullo scenario internazionale della politica estera che il giovane scrittore lombardo Eugenio Corti sembrò percepire fino in fondo il clima di tensione: nell’autunno successivo, infatti, la crisi delle due potenze Usa-Urss sembrò sfiorare una ennesima guerra mondiale con la crisi missilistica di Cuba.
L’opera drammaturgica, messa in scena dalla Compagnia Stabile di Diego Fabbri presso il Teatro romano della Cometa, nel frattempo era rimasta in cartello per tredici giorni e salutata favorevolmente dalla critica: ovviamente, la stampa comunista e liberale vide di malocchio un lavoro così chiaro nel giudicare l’esperimento politico dello stalinismo in Russia, che ne mostrava l’eccidio sistematico, il clima sanguinoso. L’autore, il quarantenne Eugenio Corti, aveva effettuato l’affondo contro l’ideologia comunista sul terreno stesso della teoria politica, cioè studiando a fondo il leninismo: mentre, negli stessi mesi, il più noto scrittore anticomunista Giovannino Guareschi pagava un decennio di lotta culturale controcorrente subendo il suo primo infarto.
Ma l’Italia ufficiale non aveva orecchie per le vere alternative (del resto, poco prima, il pensatore più originale del dopoguerra, Giacomo Noventa, era morto nella generale indifferenza della “repubblica delle lettere”): come mai? Sicuramente pesò, in negativo, soprattutto l’egemonia della sinistra intellettuale, guidata da Italo Calvino e dalla mentalità neoilluminista dell’editore torinese Einaudi; prendeva le mosse allora, poco dopo le celebrazioni del centenario dell’unificazione nazionale, la formazione della mentalità laicista e radicale che ha stravolto la fisionomia del popolo italiano nei decenni successivi. A testimonianza della durezza di quei tempi, occorre leggere nel romanzo di Corti Il cavallo rosso i capitoli che ricostruiscono i fatti in questione.
Da allora, i conti con il marxismo e il sovietismo non si sono mai fatti nella loro sede deputata, che è quella della coscienza di una società: in altre parole, il senso comune diffuso continua a non percepire l’orrore anche “ideale” degli stermini avvenuti durante l’epoca staliniana, nonostante le opere filosofiche di Augusto Del Noce prima, la pubblicazione dei libri dei Dissidenti e del Samizdat e infine gli studi di Vittorio Strada ne abbiano illustrato i tratti crudeli. Anzi, nella Russia di Putin già da tempo si opera per una “riabilitazione” della figura di Stalin sin da quando (il 21 dicembre 2004) Boris Gryzlov, un dirigente della Duma, ha di nuovo deposto dei fiori sulla sua tomba.
In Europa, in occidente così come all’est, la lettura del Novecento è quindi parziale e distorta perché continua a rimandare la comparazione tra tutti gli eventi politici del XX secolo. L’opera scritta di Eugenio Corti, come quella di Solženicyn, propone esattamente una valutazione piena del passato recente per aprire una via di ricostruzione, nel presente.
In particolare, in Processo e morte di Stalin, composto di diciotto episodi intervallati da sei cori, Corti giudicò il fenomeno del comunismo ponendosi dallo stesso punto di vista dell’uomo moderno nei confronti del cristianesimo: si pose cioè all’esterno della questione, con antipatia e in aperto contrasto. Soltanto che la sua poetica non apparteneva né all’arte né alla filosofia contemporanee, perché si alimentava alle fonti della pietà e della fede che il Novecento considera inaccettabili. Nessun avversario del comunismo aveva mai osato fare del proprio “nemico” un ritratto così pieno di attenta e pietosa umanità come Corti nel raffigurare, qui, l’ultimo giorno di Iosif Stalin, dittatore, bolscevico, uomo.
Che chiedeva ai suoi accusatori in quel freddo primo marzo del ’53: “Voi pretendete d’applicare la nostra morale agli altri, mentre invece, quando si tratta di voi, vorreste applicare il principio oscurantista Non ti è lecito uccidere il tuo fratello! E perché non è lecito? Chi lo dice? Dio lo dice: lo sapete o no? E vorreste tornare sotto il giogo di Dio, voi, moderni uomini liberi?”. Con il compagno Molotov che gli rispondeva: “È tragico non poterlo contraddire”.