La comprensione della eterogenea configurazione del cosiddetto “ceto medio” – composto in realtà da una pluralità di classi occupazionali e di gruppi di status con interessi, aspettative, orientamenti politico-culturali alquanto diversificati – deve fare i conti con la mobilità sociale che è un tratto tipico delle società moderne (dinamiche e mutevoli) rispetto a quelle tradizionali (statiche e conservatrici) ed ha assunto contorni più frastagliati nell’attuale società plurale sotto la spinta delle nuove migrazioni internazionali.



La mobilità sociale coincide con un cambiamento di status (ascendente o discendente) per effetto delle carriere scolastiche e lavorative che gli individui sperimentano nell’ambito della propria generazione o rispetto alla generazione dei propri genitori, dando vita a sentimenti di miglioramento o peggioramento che alimentano la soddisfazione o la frustrazione individuale e collettiva. Tanto più ampi ed accelerati sono i processi di mobilità sociale tanto più aperta e dinamica è la società  che li ospita, ma risultano anche più intensi gli squilibri di status e i rischi di declassamento speculari ai rischi virtuosi dell’upgrading.



Il ciclo storico che abbiamo alle nostre spalle – legato alla pluridecennale stagione dello sviluppo del benessere economico e sociale anche per effetto di un’abbondante spesa pubblica (in deficit) – ci ha abituati all’idea di un trend sempre crescente, a somma positiva, alimentando, specie tra le classi medie, aspettative di status altrettanto crescenti, di per sé non immotivate (se si guarda all’esperienza delle generazioni che hanno ricostruito l’economia e la società italiana dopo il collasso della seconda guerra mondiale), ma eccessive considerato il punto di partenza assai alto e le modeste capacità di crescita del nostro sistema economico, legata alla minore competitività internazionale e alla  necessità di ridurre l’enorme debito pubblico accumulato.



A fare le spese di questa strada in salita sono soprattutto le generazioni più giovani, che in effetti godono di minori garanzie rispetto a quelle usufruite dai loro genitori quando avevano la stessa età, restano più a lungo nell’anticamera del lavoro, del guadagno, dell’autonomia per ragioni in parte oggettive e in parte soggettive, hanno però al loro attivo un capitale culturale mediamente più elevato.

Ciò che viene dipinto come un processo oggettivo, generalizzato, irreversibile di “declassamento”, “declino”, “contrazione” del ceto medio è in realtà l’esito di fenomeni compositi, dinamici e non univoci che alcuni dati recenti sulla mobilità intergenerazionale – ricavati dalla quarta indagine sui valori degli europei (EVS 2009) – ci aiutano a decodificare. Per stimare questa forma di mobilità (che dà un’idea del grado di apertura/chiusura della società italiana) è stata messa a confronto la posizione professionale degli intervistati con la posizione professionale del loro padre (all’età di 35-40 anni); è stato inoltre considerato  il livello di istruzione raggiunto dal campione di riferimento e dai loro genitori. 

In termini generali si osserva che la maggior parte degli intervistati (40%) ha sperimentato forme di mobilità professionale ascendente, che un terzo (34%) è rimasto stabile rispetto alla condizione paterna, mentre il 26% ha avuto una caduta di status professionale. In termini analitici si nota che oltre metà degli intervistati provenienti dalle classi più basse e dalle classi medie autonome ha sperimentato una mobilità ascendente, mentre quelli provenienti dalle classi impiegatizie registrano il tasso di mobilità ascendente più ridotto. La mobilità discendente colpisce in misura molto elevata coloro che provengo dalle classi alte (70%) e medio-alte (54%), alimentando un sentimento di deprivazione relativa proprio tra coloro che sono stati socializzati al raggiungimento di status elevati.

Su questo fenomeno incide in modo significativo la giovane età di molti intervistati appartenenti all’upper e alla middle-upper class che ancora non sono riusciti a raggiungere la posizione dei genitori. In questi casi risulta improprio parlare di declassamento, se non in senso temporaneo, poiché siamo di fronte alla tappa di un  percorso piuttosto che a un punto di arrivo. È tuttavia innegabile che l’allungamento dei tempi di ingresso nel mercato del lavoro e il rallentamento dei percorsi di carriera  possono generare nei figli e nei genitori appartenenti alle classi medio-alte sentimenti di forte incertezza e di elevata deprivazione relativa.

Applicando al titolo di studio lo stesso tipo di elaborazioni si osserva che i 2/3 degli intervistati hanno innalzato sensibilmente il loro punto di arrivo, con frequenti forme di mobilità a lungo raggio, come nel caso dei figli di genitori con livello di istruzione molto basso (scuola elementare o meno) che hanno conseguito come minimo il diploma quinquennale di scuola superiore. Il titolo di studio conseguito ha un rapporto diretto con la mobilità professionale, ma in modo meno lineare di quanto si potrebbe supporre: sulla mobilità ascendente il peso più rilevante spetta al diploma di scuola media superiore (36%) piuttosto che alla laurea (28%), così come inferiore alla media è il peso dei diplomi universitari o dei titoli equivalenti (18%); questi titoli di studio consolidano la permanenza nella classe professionale ascritta (tendenzialmente alta) più che proiettare verso forme di mobilità ascendente.

Alla luce di questi  risultati non si può dire che sia confermata la tesi, da più parti sostenuta, di un sostanziale immobilismo della società italiana dove prevarrebbero gli status ascritti più che quelli acquisiti e mancherebbero ragionevoli speranze di miglioramento sociale ed economico per le più giovani generazioni. Non mancano, al contrario, significativi processi di mobilità intergenerazionale ascendente sia a livello professionale, sia (soprattutto) a livello scolastico, soprattutto per le classi di età adulte, senza significative differenze tra gli uomini e le donne; le classi d’età più giovani non sono escluse da questi andamenti, ma è innegabile che esse sperimentano principalmente la permanenza (e dunque l’immobilità) nello status di partenza con fenomeni di declassamento (almeno temporaneo) per coloro che per nascita appartengono alle classi professionali più alte. È in questi ambiti che risulta più difficile mantenere lo stesso status, prima ancora che migliorarlo ed è dunque in questi gruppi sociali che più si concentrano le delusioni e le paure.

Sulla percezione di scarse chance ascendenti contribuisce, in generale, il forte innalzamento dei livelli di istruzione a cui non corrisponde però un equivalente accesso a posizioni professionali elevate a causa di un mondo del lavoro non abbastanza dinamico e diversificato.

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