La grande sorpresa della Biennale che si è aperta a Venezia è un pittore vissuto cinque secoli fa. I 25mila visitatori che hanno preso d’assalto nei primi giorni quella che resta la più importante rassegna d’arte del mondo, se lo sono trovato davanti proprio all’ingresso della sede principale, ai Giardini.

Tre grandi tele di Jacopo Tintoretto, questo il suo nome, due arrivate dalla Galleria dell’Accademia e una dalla basilica di San Giorgio Maggiore. Tutti soggetti sacri: Il trafugamento del corpo di San Marco, la Creazione degli animali e l’Ultima Cena. L’idea di “invitare” Tintoretto tra questa sfilata di artisti contemporanei è stata della curatrice, Bice Curiger. Il tema scelto per la Biennale infatti è stato quello della luce (ILLUMInazioni è il titolo) e la curatrice ha avuto la giusta idea di proporre un collegamento con la grande arte veneziana che proprio su luce e colori aveva costruito la sua fortuna. Un’idea vincente al punto che La Repubblica ha titolato così la prima corrispondenza a doppia pagina sulla Biennale: “Tintoretto illumina il nulla contemporaneo”.



In realtà non è il caso di fare classifiche o confronti, ma semmai di constatare come tre grandi quadri del passato, tolti dal loro contesto, esplodono in tutta la loro potenza incendiaria. Jonathan Jones, il titolare del popolarissimo blog d’arte sul sito del quotidiano inglese Guardian, parla di “una qualità sovversiva” e dei “drammatici effetti spaziali” della sua pittura. E poi evidenzia il paradosso di come un pittore “pio e pienamente omogeneo al controriformismo” oggi sia in grado di comunicare tanta energia e di suggestionare con quei suoi lampi di luce la mente di visitatori e artisti ormai impermeabili ad ogni provocazione.



Tintoretto alla Biennale rimescola un po’ di carte. Innanzitutto dimostra che la grande arte del passato non solo non teme le contaminazioni con il contemporaneo ma in un rapporto “non protetto” con la modernità può acquistare un’inattesa vitalità. È come se perdesse quella patina depositata dal tempo e tornasse ad essere a tutti gli effetti un’opera del nostro tempo. In secondo luogo smentisce un’idea che tra arte di oggi e arte del passato ci sia una cesura incolmabile, quasi si trattasse di due mondi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Non è così, per quanto profonda sia la rivoluzione che ha cambiato la scena dell’arte contemporanea. Nelle prospettive spericolate di Tintoretto si può subito riconoscere l’irrompere di una modernità inquieta. E in tanti artisti di oggi possiamo trovare il persistere di tanti temi e domande che erano centrali nella pittura antica. Basti pensare che la chiesa di San Giorgio, da cui viene la strepitosa e drammatica Ultima cena di Tintoretto (un’opera dei suoi ultimi anni) ospita in occasione di questa Biennale il lavoro di uno dei più famosi artisti di oggi, Anish Kapoor, che è una riflessione sul tema dello spirito.



L’irruzione di Tintoretto alla Biennale quindi è destinata certamente a lasciare un segno e ad aprire una breccia in quel muro che sembra tenere distanti arte del passato e arte di oggi. Certamente pone anche il tema della grandezza: di un’arte che non si può accontentare di girare su se stessa. O di risolvere la questione semplicemente  ingigantendo le dimensioni dei propri lavori. La grandezza è data dal desiderio che muove un artista. E Tintoretto era certamente mosso da un desiderio infiammato.

 

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