Ci sono casi in cui, quando si ragiona di letteratura e del suo contributo al più ampio universo della cultura (qualunque cosa essa sia e comunque la si voglia definire: ad esempio, direbbe Ratzinger, come “forma di espressione comunitaria, sviluppatasi storicamente, delle conoscenze e dei giudizi che caratterizzano la vita di una comunità”), sarebbe meglio dirsi la verità (con la v minuscola, per carità…); sarebbe meglio non farsi tentare dalla bugia, con le sue chiacchiere contrarie alla realtà e ingannevoli, o dalla menzogna, che ricorre alla parola per immaginare cose false e non corrispondenti al reale (giusto per offrire un contributo etimologico a questa contemporanea, ma non esaltante diatriba…).
Quando, poi, si ha a disposizione un genio della riflessione e della testualità letterarie del calibro di John Maxwell Coetzee (di un frammento della Milanesiana 2011 impreziosito dalla sua presenza si sta ovviamente ragionando, accaduto la sera di domenica tre luglio nella bella sala rinnovata del Teatro Dal Verme e dedicato a Le menzogne necessarie), beh, allora, verrebbe soltanto da chiedergli il segreto del suo modo di dare concretezza testuale al fluttuante reticolo di relazioni tra verità, bugia, menzogna e compagnia bella. Magari, perché no, con qualche domanda culturalmente (im)pertinente ed incisiva in più – e qualche vaniloquio introduttivo di prammatica in meno su “ri-racconto” e “riscrittura” (buttati lì così, quasi una glassa tecnicistica), nonché su Robinson Crusoe di Defò [sic], come “opera di letteratura che, pur essendo menzognera e falsificante, sfida i secoli più della verità”…
Le domande e, soprattutto, le risposte del pluripremiato scrittore sudafricano ora residente in Australia, insignito del Nobel per la Letteratura nel 2003 (oltre che – non guasta, anzi! – raffinatissimo docente di letteratura inglese, della cui sagacia ermeneutica offrono testimonianza, ad esempio, due preziosi volumi di saggi, Spiagge straniere e Lavori di scavo, curati per Einaudi da Paola Splendore) ci avrebbero sicuramente aiutato a comprendere, insieme al rapporto tra bugia e menzogna, anche il senso profondo di un folgorante frangente narrativo dello straordinario Aspettando i barbari (Waiting for the Barbarians, 1980).
In tale frangente, infatti, ragionando sulla tortura con il magistrato protagonista del romanzo che gli chiede: “Come fa a sapere se un uomo le ha detto la verità?”, l’inquietante figura del Colonnello Joll se ne esce con quanto segue: “C’è un tono particolare […] nella voce dell’uomo che dice la verità. L’allenamento e l’esperienza ci insegnano a riconoscere quel tono. […] Mi riferisco a una situazione particolare. A una situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In principio mi dicono solo bugie, capisce…succede sempre così: prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il crollo, ancora pressione e alla fine la verità. È così che si arriva alla verità”. Al che il magistrato conclude tra sé laconicamente, quasi si trattasse di una verità antropologica e universale desunta dal tema specifico delle parole del Colonnello: “Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio. È questo che ricavo dalla mia conversazione con il colonnello Joll”.
Ed è un peccato che, nella pur bella traduzione Einaudi di Maria Baiocchi, si perda, forse, il tratto innanzitutto fisico e corporeo (pain) di quel dolore che è fondamento di verità, lancinante ma umanissimo, e che conferisce al corpo un ruolo che, troppo di frequente, i nostri giorni non sono disposti a riconoscergli per inveterata pigrizia o per infantile paura, entrambe ovviamente comprensibili: quello di garanzia e testimonianza di realtà che accompagna la vita dell’uomo e che quest’ultimo accetta come un dono, spesso assai scomodo. Chissà cosa avrebbe risposto Coetzee a una domanda su queste implicazioni di quel doloroso (è proprio il caso di dirlo!) passo? Le avrebbe riconosciute come familiari, magari rievocando criticamente le radici profonde della sua formazione giovanile presso il cattolico St Joseph’s College di Cape Town?
Era proprio adatto alla Milanesiana di quest’anno l’orizzonte universale di quel pain is truth del magistrato (quanto diverso da un’altra formula analoga, compiutamente circolare, ma anche costantemente strapazzata nelle nostre scuole: il keatsiano beauty is truth, truth beauty? Chi tra i lettori saprebbe provare a dire “come”? Non sono proprio questi i gioielli di innumerevoli esperienze personali che la letteratura sa incastonare nelle sue meraviglie testuali?). Anzi, pareva proprio una variazione sul tema di quel pain is truth il testo letterario riecheggiato grazie alla viva voce di Coetzee nella serata della Milanesiana del tre di luglio. Un testo anticipato dalla stampa (Repubblica, 1 luglio 2011) con titolo giornalisticamente appropriato (“Le verità della vita. Le parole da dire alle persone amate”) e occhiello redazionalmente efficace (“una lettera alla moglie, il rapporto con la madre. Così il premio Nobel riflette, alla Milanesiana, su ciò che vogliamo sapere”).
Un testo, soprattutto, che, come molti altri testi di Coetzee, finisce in realtà per porre la domanda delle domande sulle relazioni tra realtà e rappresentazione nella letteratura, tra parola vera sulla vita pronunciata di fronte a una persona in carne e ossa e scrittura letteraria (di qualunque genere essa sia) consegnata a un generico ed impersonale lettore: “Cara Norma, ‘la verità vera’ […] era quello che [mia madre] chiedeva, o forse implorava. [Mia madre] sa molto bene qual è la verità vera, come lo so io, e dunque non sarebbe stato duro pronunciare le parole. […] Ma non ho potuto. Non potevo dirle in faccia le parole che ora non ho difficoltà a scriverti: la verità vera è che stai morendo. […] Cara Norma, verrà un giorno in cui dovranno dire la verità, la verità vera anche a te e a me. Allora facciamo un patto? Promettiamoci di non dirci bugie, promettiamoci di dirci quelle parole, per quanto ci possa costare farlo […]. Con affetto, tuo marito, John”. È questa la lezione più esigente di Coetzee, per il quale la “relazione [nella testualità letteraria] tra lettore, narratore e autore è il terreno sul quale verificare tutte le relazioni importanti” intessute dagli esseri umani nelle loro vite (Stephen Abell, Times Literary Supplement, 25 febbraio 2011).
Allora, seguendo proprio quest’ultimo invito di Coetzee, cari amici della Milanesiana, diciamoci la verità. Grazie, innanzitutto, per lo scrittore sudafricano e per tutti gli altri illustri ospiti, grazie per quanto avete fatto fin qui e per quanto saprete fare in futuro. Non dimenticate, però, che, quanto più prestigioso è il frutto dell’impresa organizzativa che tutti gli anni sapete portare a termine, tanto maggiore è la responsabilità che vi assumete rispetto alla (distratta? debole?) coscienza culturale di questa nostra amata città, spesso irretita dalla “logica performativa” dell’evento o dello happening, per i quali basta (ancora l’etimologia!) che qualcosa accada per essere significativo. Meglio, dunque, investire (in tutti i sensi!) sulla feconda crescita culturale di una comunità (che avete saputo allargare oltre i confini di Milano), sulla sua capacità di faticare serenamente per crescere, di fare lo sforzo di divertirsi per conoscere e, parafrasando il neo-arcivescovo di Milano Angelo Scola, di ascoltare con gioia chi dice cose difficili, perché non ci si accontenta di quelle che già si sanno (o aggiunge rispettosamente chi scrive, di quelle che ciascuno di noi pensa di sapere).