Appurato che dal punto di vista analitico il “ceto medio” è formato da una molteplicità di categorie occupazionali (impiegati, artigiani, commercianti, piccoli professionisti) e non rappresenta un gruppo sociale omogeneo, resta interessante approfondire le ragioni per cui il termine “ceto medio” ha goduto e continua a godere di una solida fortuna a livello della comunicazione pubblica e del linguaggio politico.



Una prima risposta a questo interrogativo va cercata nel fatto che la politica è un’attività pratica (orientata al comando) più che un’attività speculativa e dunque ha bisogno di rendere semplice ciò che è complesso, in modo da favorire l’intesa tra il maggior numero di persone. La politica, tuttavia, non tende soltanto ad utilizzare il senso comune, ma punta anche a influenzarlo e persino a “costruirlo” facendo apparire come “reale” ciò che lo è solo in parte o non lo è affatto. Entriamo così in una seconda risposta: la politica è anche una fabbrica di ideologie e partecipa attivamente alla costruzione di rappresentazioni del mondo per fini di dominio; dunque, non solo utilizza le semplificazioni, ma ha bisogno di crearle per ottenere audience e consensi alla sua visione del mondo.



La storia della politica è ricca di queste invenzioni e molti capi politici debbono la loro fortuna proprio a questa capacità inventiva che diventa efficace a condizione di saper interpretare esigenze effettive (culturali, sociali, economiche); in questo senso, la politica deve saper stare in rapporto con la realtà a cui si rivolge, ovvero con i gruppi sociali e gli interessi che vuole rappresentare. Tra i molti esempi di questo processo rientra anche il caso del “ceto medio” che costituisce, nello stesso tempo, una costruzione politica e una risposta a dinamiche effettivamente presenti nella società.



Dal lato della classe politica il concetto di “ceto medio” è servito a unificare un eterogeneo insieme di classi e di categorie professionali attorno ad un’idea interclassista e cooperativa della società, in opposizione ad un’idea dicotomico-conflittuale tipica della tradizione ideologica marxista. Lo sviluppo delle classi medie è in effetti il risultato di un passaggio dal capitalismo di laissez faire, tipico della fase liberal-borghese – ove lo stato si è astenuto dall’intervento nella vita economica e ha favorito una ristretta classe dominante detentrice, in via esclusiva, del diritto di voto – ad un capitalismo regolato, tipico della fase liberal-democratica e social-democratica, in cui lo stato è intervenuto attivamente nella vita economica e si è trasformato in welfare state, sotto la pressione dell’estensione universalistica del diritto di voto alle masse precedentemente escluse.

L’espansione delle classi medie (in alternativa alla polarizzazione conflittuale della società tra due classi principali) è il risultato congiunto dello sviluppo economico-tecnologico capitalistico e del processo di democratizzazione sociale e politico, da cui sono nate nuove professioni e categorie professionali. Si pensi, ad esempio, all’espansione dei ceti impiegatizi nel settore privato e pubblico, all’aumento dei ceti intellettuali per via dell’espansione dell’istruzione, della ricerca, dell’industria culturale, all’aumento delle molteplici forme di lavoro autonomo nei settori del commercio e dei servizi alle imprese e alle persone. L’espansione delle classi medie, a cui ha contribuito anche il cosiddetto processo di imborghesimento della classe operaia, coincide con l’estensione dei diritti di cittadinanza economici e sociali e del sistema delle garanzie pubbliche (all’istruzione, alla salute, alla previdenza) a sostegno di tali diritti.

È dunque evidente che ogni modifica (in meglio o in peggio) di questo sistema di garanzie abbia effetti immediati sulla coesione sociale e sul consenso politico delle classi medie che rappresentano la parte maggioritaria della società e dell’elettorato. Le reazioni sociali e politiche alle misure in corso nel nostro paese per ridurre il debito pubblico documentano in modo immediato questo processo, e rendono evidenti sia le divergenze profonde tra gli interessi delle classi medie dipendenti e di quelle autonome, sia l’illusorietà di una politica indistinta per un indistinto “ceto medio”.

La consolidata fortuna politica del concetto di “ceto medio” – messa oggi alla prova dalle politiche di rientro dal debito pubblico e dalla modifica del sottostante patto fiscale – non si spiegherebbe senza il consenso ricevuto dal lato della società e, in concreto, degli elettori. Far parte del mitico “ceto medio” è per tutti gli elettori un messaggio rassicurante perché: fa sentire anche le classi medio-basse al “centro” della vita sociale e politica, piuttosto che ai suoi margini; fa sentire anche le classi medio-alte al riparo da invidie sociali; dà a tutti la sensazione di far parte della società che “conta”, senza dover affrontare il costo psicologico e sociale di confronti imbarazzanti e di impegnative battaglie.

Le polarità estreme attirano diffidenza, compassione, invidia, su di esse si riversano i pregiudizi, le prese di distanza, i risentimenti. Se non si  riesce a far parte del ceto “alto” (o si è riusciti a sfuggire dal ceto “basso”) è meglio  autocollocarsi al centro della stratificazione sociale. Se si è “al centro” non si è (per definizione) “estremisti”, ma neppure “minoritari”, dunque irrilevanti o costretti ad azioni militanti per non scomparire nell’indifferenza; si è parte del “popolo di mezzo”, maggioritario, importante e tenuto in considerazione da chiunque aspiri al successo elettorale. Dentro al ceto medio c’è posto per tutti e tutti hanno un posto. Il ceto medio è considerato e si sente, di volta in volta, ceto “moderato”, “operoso”, “benestante”, “onesto” e dunque diventa ago della bilancia di qualunque alleanza politica che aspiri a svolgere funzioni di governo. Non è un caso che il crescente ruolo politico delle classi medie coincida con l’ascesa dei partiti di massa, interclassisti, “piglia tutto” e il declino dei partiti di classe, selettivamente orientati ad una parte più o meno grande della popolazione.

L’appello politico al “ceto medio” è facile e gratificante finché si possono distribuire benefici a tutti, mostra invece la corda quando si debbono intraprendere politiche selettive e impopolari. I politici che dunque pensano di poter indistintamente parlare al ceto medio sono destinati ad essere irrilevanti e immobilisti, o semplicemente insinceri e di fatto corporativi. Il valore simbolico e (talora) trainante del “ceto medio” deve dunque essere sostituito con altri riferimenti sintetici, altrettanto evocativi, ma più praticabili e mobilitanti. Non è del resto casuale che il riferimento agli interessi di classe, di ceto, di categoria sia assente nei nomi dei partiti che oggi contano e che invece prevalgano i riferimenti ideologici al popolo, alla libertà, alla democrazia, ai valori, alla sinistra, alla destra, al futuro, alle appartenenze territoriali, più adatti a creare senso di identità  e di mobilitazione, a condizione che i leaders e i gruppi dirigenti di tali partiti risultino credibili nelle proposte e nei comportamenti.

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