«Ulisse è un capolavoro. Ma può essere che tra cinquant’anni saremo in grado di dire che è Finnegans Wake il suo capolavoro definitivo; ora forse non lo possiamo dire, perché stiamo ancora lavorando per capirlo». In questa intervista John McCourt, studioso di letteratura inglese ed esperto di James Joyce, parla del grande autore irlandese, di cui ricorre quest’anno il settantesimo della scomparsa. Da Gente di Dublino al difficilissimo Finnegans Wake, McCourt esplora l’attualità di Joyce, il suo sofferto rapporto con l’Irlanda e la Chiesa; parla del lavoro, estremamente difficile, che attende i traduttori e, nel nostro piccolo, anche noi lettori. Senza dimenticare però che lo stesso Joyce – precisa McCourt – «si lamentava che gli studiosi rendevano troppo distanti le sue opere; fatte, anche, per divertire».
Tutte le opere di Joyce sono classici e per questo non è difficile definirle «attuali». Qual è tuttavia, secondo lei, la ragione profonda della sua contemporaneità?
Direi che Joyce ha molto da dire ancora oggi perché ha saputo suggerire alcuni tratti essenziali di questo nostro mondo moderno. Questo è evidente se si legge attentamente il suo ultimo lavoro, il più difficile, Finnegans Wake, che ancora stiamo cercando di decifrare. Esso anticipa, in qualche modo, l’overdose di informazioni che segna in modo profondo la nostra vita contemporanea. Basti pensare che Joyce cita la televisione, che stava nascendo proprio in quegli anni.
Finnegans Wake dunque come culmine dell’opera di Joyce e suo libro più profetico?
Sì. In Finnegans Wake, che ricordiamolo, è stato pubblicato nel 1939, ci sono migliaia di suggerimenti che il lettore può interpretare in mille modi diversi, e che per questo lo lasciano completamente spiazzato. Se pensiamo a internet, ai 500 canali televisivi e al bombardamento di informazioni di cui siamo oggetto, e al paradosso finale che siamo molto meno informati proprio a causa della mole di dati che piovono su di noi dal mondo esterno, l’analogia diventa chiara.
Torniamo però alla prima opera importante di Joyce, Gente di Dublino, del 1914.
Gente di Dublino, libro di quindici racconti, è il grande caleidoscopio di un piccolo ma rappresentativo gruppo di individui determinati dalla precarietà e dalla paralisi; economica, sociale, psicologica. Fino a quel momento eravamo abituati a trame con un inizio, un centro ed una fine, ma Joyce cambia tutto. Quindici racconti vengono a costituire una storia circolare e tutto ruota intorno ad epiphanies, epifanie, circostanze del tutto particolari nelle quali il protagonista vive un momento che gli da la possibilità di raggiungere un attimo di self-understanding; ma esso è anche un momento che coinvolge il lettore, il quale ha in questo modo l’occasione di capire tutto più a fondo. Leggendo siamo costretti a vedere noi stessi in modo possibilmente nuovo.
Diceva del percorso circolare…
Sì. Nei Dubliners il percorso di ogni racconto è circolare, riporta i protagonisti più o meno al punto di partenza. Non è così anche per noi? La nostra vita assomiglia assai poco ad un grande romanzo; anzi, quello che più ci preoccupa sono gli eventi ricorsivi di ogni giorno. Questa circolarità Joyce la ripropone nell’Ulisse, che racconta una giornata nella vita della sua Dublino, che diventa anch’essa, insieme alle storie degli uomini che vi sono raccontate, protagonista del romanzo: Dublino in sé, e Dublino come metafora della città contemporanea e degli uomini che la abitano.
Perché Ulisse è considerato il capolavoro del suo autore?
Ulisse ha la straordinaria capacità di dar vita con le parole a questa città in movimento, che rispecchia tutte le nostre città; mette al centro dei personaggi, soprattutto Leopold e Molly Bloom, che sono non straordinari ma normali, personaggi con i quali noi possiamo senz’altro identificarci. Due attori integralmente europei, non soltanto irlandesi ma con radici che rispecchiano l’ibridismo dei tempi nostri. Il tutto dentro una struttura enormemente complessa, in cui ogni capitolo ha il suo stile narrativo, la propria voce, il proprio colore. L’opera, non bisogna dimenticarlo, è pervasa da un grande senso dell’umorismo. Vite normali, destini che potrebbero essere anche tragici, si risolvono in una commedia. Ma, alla fine, quello che guardiamo di più, come lettori, è l’uso straordinario del linguaggio che Joyce fa. L’Ulisse spinge la lingua inglese ai suoi limiti, facendola, in qualche modo, rinascere.
Anche secondo lei è il suo capolavoro?
Ulisse è oggettivamente un assoluto capolavoro. Ma può essere che tra cinquant’anni saremo in grado di dire che è Finnegans Wake il suo capolavoro definitivo; ora forse non lo possiamo dire, perché stiamo ancora lavorando per capirlo.
Prima lei ha parlato di quei tipici momenti di «rivelazione» che sono le epifanie. Come si spiega in Joyce il ricorso a questo concetto?
Il concetto di epifania in Joyce è controverso e dibattuto. A mio modo di vedere il suo debito va a D’Annunzio, nel quale – e parlo soprattutto del primo D’Annunzio, quello de Il fuoco per capirci – vedeva l’esempio più alto del romanzo europeo di allora. Come ogni scrittore, dopotutto, Joyce interpreta gli altri scrittori come gli pare e piace. Epifania è un momento di rivelazione, certamente è un concetto religioso, non ci sono dubbi, ma quello che conta è che è innanzitutto il momento in cui uno – narratore, protagonista, lettore – capisce di più se stesso e le cose. Il «contenuto» della rivelazione conta assai più della causa; Joyce ci ha lasciato un quaderno di appunti pieno di queste epifanie private, che egli stesso non ha spiegato.
Come dobbiamo leggere il rifiuto in Joyce della Chiesa e dell’Irlanda? In fondo, anche quando l’avrà lasciata, parlerà sempre della sua patria.
Da giovane Joyce ripudia pubblicamente la Chiesa cattolica e il nazionalismo irlandese, che allora era tutt’uno con essa. Egli però ce l’ha molto più con la Chiesa cattolica irlandese che con la Chiesa cattolica come tale; non smetterà di professarsi ammiratore dei grandi pensatori cattolici. È vero, Joyce si è collocato esplicitamente fuori dalla Chiesa, ma per questo lo definirei più heretic che atheist. Rifiutò una chiesa che non lasciava spazio alla singola personalità; una chiesa fin troppo presente e addirittura ossessiva nel controllo di tutti gli aspetti della vita dei singoli e della società. Nell’Irlanda di Joyce i preti pretendevano di decidere tutto.
Secondo lei anche in questo è stato profetico?
Purtroppo in quella scena così toccante del Ritratto in cui Stephen viene flagellato dal prete, stanno molte delle disgrazie della Chiesa e di quello che è accaduto alla gioventù d’Irlanda negli ultimi decenni. Nel Ritratto non si arriva ad atti di molestie, certo, ma resta il simbolo di un rapporto problematico, doloroso, conflittuale, ultimamente non giusto tra ragazzo e prete. Joyce dice più di una volta che la Chiesa, controllando tutti gli aspetti della vita, non lasciava lo spazio per pensare autonomamente. Dal punto di vista storico, non c’era ancora quella giusta separazione tra lo Stato e la Chiesa che sarebbe maturata nell’Irlanda successiva alla partenza di Joyce (anzi, solo negli ultimi decenni). Molto, dal punto di vista politico, sarebbe cambiato; non altrettanto nella sfera pastorale e morale.
Che ne è invece in Joyce dell’identità irlandese?
Ci sarà sempre. Basti pensare al fatto che continuerà a scrivere soltanto di essa, e dunque nel suo animo non la lascerà mai. Crea però un’Irlanda diversa: con Leopold e Molly Bloom ci dà l’idea di una Irlanda più aperta al mondo, capace di accettare anche lo straniero, il diverso. Lo definirei in questo senso un patriota, perché critica il proprio paese per tentare di migliorarlo. Joyce vuol far vedere gli irlandesi a se stessi come in uno specchio e lo specchio sono i suoi libri. Il suo primo pubblico sono proprio gli irlandesi: è questo il suo tentativo di cambiamento, ed egli lo vede come una missione.
Quest’anno è stato proposto al pubblico italiano il secondo volume della rielaborazione di Finnegans Wake, che non potrà essere completata per la morte di Luigi Schenoni. Cosa pensa di questo lavoro?
È probabilmente il miglior tentativo che ci sia stato finora di tradurre Finnegans Wake. Come più persone hanno giustamente osservato, la domanda non è: «in» che lingua, ma «da» che lingua tradurre Finnegans Wake. Perché non si capisce bene realmente in che lingua sia scritto questo libro! Certo la base è inglese, ma un inglese molto particolare, pieno di accenti, parole, ritmi propri di altre lingue; è un libro che rispecchia tutta la vita europea di Joyce. Vi sono il triestino, lo strano tedesco di Zurigo, il francese, il norvegese – che Joyce impara da giovane per parlare con Ibsen: un contenitore di lingue estremamente difficile da trasporre in una sola altra lingua.
Che cosa insegna allora il grande lavoro di Schenoni?
Innanzitutto, occorre dire che Schenoni ha lavorato per decenni per portare a termine il progetto ed è un peccato che non sia riuscito a finirlo, perché nessuno ha, allo stato, le qualità per subentrare e portarlo a termine. Per venire alla sua domanda, le cito quello che ha risposto, a Trieste, Joaquim Mallafre, traduttore dell’Ulisse in catalano, a chi gli chiedeva se dopo quella monumentale impresa si accingesse, come poteva sembrare naturale, a tradurre Finnegans Wake: assolutamente no, ha risposto. Quei pochi che vogliono leggerselo, è meglio che imparino l’inglese e si mettano a «combattere» con l’originale. Joyce stesso del resto ce lo ha insegnato. L’ultima cosa che ha scritto è stata la versione italiana di Anna Livia Plurabelle, splendida parte di Finnegans Wake: è un lavoro bellissimo, ma non è la stessa cosa dell’Anna Livia Plurabelle in inglese. È una versione, che come tale crea effetti suggestivi simili a quelli nell’originale ma resta un’altra cosa, una variazione, se vogliamo.
Nel 2012 scadranno i diritti d’autore sull’Ulisse e, di conseguenza, sarà possibile utilizzare liberamente il testo senza dover chiedere l’autorizzazione alla famiglia di Joyce. Cosa possiamo aspettarci nell’editoria italiana?
Sta già portando delle novità: Enrico Terrinoni sta ultimando una nuova traduzione dell’Ulisse. Questo è molto positivo, perché la traduzione degli anni 60 di Giulio De Angelis è un po’ invecchiata, quanto l’Ulisse si mantiene assolutamente contemporaneo… il lavoro di De Angelis è in un italiano un po’ troppo formale, che coglie poco dello humour che c’è nell’opera. Spero che vedremo traduzioni nuove; ne vedremo di malfatte, ma anche di buone. Sarebbe bello per i lettori poter scegliere. È sicuro però che anche le nuove traduzioni saranno condotte sulle vecchie edizioni dell’Ulisse (che presentano errori e refusi, ndr), perché quella approvata dalla famiglia dell’autore nel 1984 sarà sotto copyright per altri 50 anni.
Com’è avvenuto il suo «incontro» professionale con Joyce?
Ho frequentato la stessa scuola dei gesuiti che ha frequentato lui, il Belvedere College. Ero là nel 1982, quando ci fu il primo centenario di Joyce. Durante le celebrazioni se ne parlò a scuola; in Irlanda però non era tra gli autori da leggere, bensì da evitare… Io ebbi la fortuna di avere tra i miei insegnanti un gesuita illuminato, che ci fece leggere, nelle lezioni di religione, il Dedalus e The seven storey mountain di Thomas Merton, due storie in cui rispettivamente l’uomo abbandona e arriva alla fede. Quella fu la mia introduzione a Joyce. Dopo l’università, a 27 anni, sono arrivato a Trieste e qui ho cominciato a rileggere bene tutta la sua opera. In quel periodo mi accorsi che le sue opere dovevano molto a quella città, nella quale egli visse per più di undici anni.
Lei è l’ispiratore e l’organizzatore della Joyce Summer School di Trieste. Che significato ha assunto questo evento letterario?
Quindici anni fa fondammo una Summer school joyceana, per portare a Trieste, ogni anno, cultori e appassionati di Joyce provenienti da una trentina di paesi. È un’impresa ardua, soprattutto per la difficoltà di convincere gli sponsor locali a finanziarla. Chi viene a Trieste scopre la città attraverso gli occhi di Joyce: è un momento «epifanico», perché può rendersi conto della bellezza di Trieste e dell’importanza di questa città per Joyce scrittore. È una città bella, scontrosa, in cui tanti scrittori – Slataper, Svevo, Saba e molti altri hanno trovato lo spazio anche psicologico per scrivere. Proprio perché è una città di confine, uno è chiamato a definirsi in qualche modo. Anche Joyce lo fece a modo suo.
Un consiglio ai lettori. L’approccio giusto per leggere l’autore dell’Ulisse?
Joyce va letto poco per volta, lentamente. So che è difficile, perché non va molto d’accordo con le nostre vite superveloci. I giovani oggi leggono poco, e quando lo fanno leggono in velocità e per di più prevalentemente sullo schermo. Non una di queste cose va d’accordo con la pagina di Joyce, perché così facendo «sparisce» tutto. Sarebbe come ascoltare la musica classica facendo tutt’altro, riducendola quindi a sottofondo, a background indistinto. Joyce chiede uno studio profondo, lento, l’attenzione ad ogni parola, perché dietro ogni parola c’è un mondo. Le grande opere d’arte, come quelli di Joyce, richiedono un impegno paragonabile a quello che richiede la Bibbia. Consiglierei di cominciare con Gente di Dublino, cercando di vedere quei 15 racconti come capitoli della stessa realtà. Quando si vede che qualcosa ritorna, una, due, quattro volte… allora si comincia a capire. Joyce non ci spiega mai niente, inutile aspettare spiegazioni da lui. Sta tutto a noi.
(Federico Ferraù)