Agli occhi di uno studioso dei fenomeni religiosi l’Italia affascina e delude. Troppo spesso alle immagini delle devozioni, ai consensi di massa legati alla figura del Pontefice, agli spettacolari raduni nazionali si aggiunge la sensazione di una dimensione religiosa parziale dove, anche tra il 32% di quanti dichiarano di frequentare regolarmente la messa domenicale, i principi sono scelti in modo selettivo secondo il tribunale ultimo della propria coscienza, l’etica viene ridotta a principi di buon vicinato, mentre il messaggio di salvezza viene usato in funzione meramente consolatoria e di rassicurazione.
Una religione ridotta a pratiche superficiali e incostanti, che supporta un insieme di credenze incerte, dove l’avvenimento vertiginoso di un Dio incarnato sembra sfociare in una generica morale del rispetto universale è, di fatto, qualcosa di significativamente riduttivo e, per molti versi, di preoccupante (almeno sotto il profilo pastorale). In questo contesto – come osservava acutamente Sergio Quinzio – anche il semplice evocare il dogma della resurrezione della carne sembra quasi apparire come un eccesso, una estremizzazione fondamentalista. Nulla di più evidente pertanto di un’Italia che resta inevitabilmente secolarizzata anche quando riempie le piazze per una processione, sottoscrive un livello fiduciario alla Chiesa che nessun’altra istituzione può ottenere, affolla le strade dei santuari, assicura un’audience impensabile alle emissioni radiofoniche religiose ed alla stampa cattolica.
Non si può pertanto non dare ragione alle perplessità di Costantino Esposito sulla reale significatività di una tale dimensione religiosa nell’Italia contemporanea. Per quanto possa essere ancora consistente sul piano numerico, essa “ha perso la sua funzione operativa”. Per di più la presenza di una galassia di praticanti – per di più plurale al suo interno – che sottoscrive una religiosità ambivalente ed incerta dal punto di vista delle conoscenze reali, è assolutamente disarmata sul piano culturale. Nei fatti essa si rivela pienamente disponibile a sottoscrivere ricostruzioni storiche e vulgate filosofiche che fanno della Chiesa il baricentro di una tradizione illiberale, ma soprattutto si rivela sorprendentemente disposta a controfirmare i principi del relativismo morale e del primato delle circostanze. Ciò del resto non avviene da oggi e una tale condiscendenza nei confronti dei più banali luoghi comuni antiecclesiali si poteva cogliere già dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso, come rileva lo stesso don Luigi Giussani, fedele testimone dell’epoca.



Va tuttavia osservato come il terreno di quella che si può definire come semplice “sensibilità religiosa”, per quanto accidentato, malfermo e generatore di confusione possa essere, produce non di meno delle conseguenze rilevanti. In primo luogo esso alimenta, con la sua straordinaria potenza numerica (che va ben al di là dei praticanti domenicali) un fronte di consenso all’istituzione ecclesiale che non si traduce solo nell’8 per mille.
Il problema non è ovviamente riducibile in termini lobbistici – ed è in questo senso che la lettura che ne fanno gli scienziati della politica come Luca Cartocci è estremamente riduttiva – ma va invece analizzato in chiave culturale. Una massa del 32% di soggetti che si dichiarano “praticanti regolari” ed una quota ancora più consistente che dichiarano di “pregare spesso” permette di mantenere un principio di legittimazione della dimensione religiosa – e quindi di tutto quello che da questa può svilupparsi – che non è affatto da sottodimensionare. Di fatto una tale massa impedisce qualsiasi “espulsione culturale” del sacro dalla cultura diffusa, espulsione che costituisce lo stadio finale del processo di secolarizzazione e si è ampiamente verificata in altre nazioni europee, come è stato il caso della Francia, almeno nella sua cultura dominante urbano-metropolitana.
In Italia, questa stessa religiosità inferma e incerta ha impedito che il processo di secolarizzazione sfociasse nella dissacrazione, che i principi di fede potessero essere dileggiati, che credenze e pratiche potessero essere derise, che l’individualismo e l’edonismo contemporaneo potessero affermarsi come unici protagonisti della cultura contemporanea. Lo si voglia o no, questa massa incerta e contraddittoria ha inquinato il processo di secolarizzazione, ne ha modificato la rotta, lo ha reso costantemente incerto e contraddittorio, facendolo deviare dalla sua traiettoria. L’Italia oggi è certamente e massicciamente secolarizzata, ma è anche altrettanto massicciamente ancorata intorno a tradizioni, memorie e eredità che, benché puramente emozionali e apparentemente ininfluenti negli ambiti dell’agire pratico, sono sufficienti da sole ad alterare i risultati complessivi del processo di laicizzazione delle coscienze.



Nulla di tutto questo – lo ripeto – coincide necessariamente con una reale conoscenza religiosa: tra la dimensione esperienziale e riduttiva della fede vissuta e il messaggio di salvezza presentato dalla Chiesa intercorre, spesso, una distanza imbarazzante e la fede si riduce, pericolosamente, a morale. Ma, al di là di tali spettacolari derive, la sensibilità religiosa toglie al processo di secolarizzazione un potere di monopolio e colloca la cultura secolare diffusa in un universo contraddittorio, che costituisce poi la vera specificità del caso Italia e ne fa un importante luogo di analisi. Per di più è proprio da tale crogiolo di contraddizioni e di convinzioni malferme che comunque nascono e maturano esperienze più profonde e meno riduttive.
Ma c’è di più, ed è forse il dato più contraddittorio e imbarazzante: tale universo non ha alcunché di residuale. Un tramonto di qualsiasi processo culturale che non sfoci nella sua scomparsa non è un tramonto ma qualche altra cosa. A cinquant’anni da L’eclissi del sacro nella civiltà industriale di Sabino Acquaviva, il ritratto dell’ambiguo ed incerto desiderio di Dio nell’Italia contemporanea resta tutto da decifrare e non manca, dopo aver deluso, di continuare a stupire.

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