William James diceva che in ogni filosofia c’è un cuore segreto, un centro di gravità a cui tutto il resto si riferisce. Cogliete quello e tutto il resto seguirà. C’è del vero in questa descrizione e nel caso di Costantino Esposito, di cui il libro Una ragione inquieta (Edizioni Di Pagina, Bari 2011) raccoglie le riflessioni “nelle pieghe del nostro tempo”, il centro è il drammatico scollamento provocato dalla modernità: l’io da una parte, il mondo, il dato, l’oggetto, gli oggetti singoli e irripetibili dall’altra. Esposito insegue questo scollamento, questa distanza, questa “patologia diventata fisiologia” (16) in contesti apparentemente lontani, facendo così emergere la nostra spesso inconsapevole ma inevitabile appartenenza all’orizzonte della modernità. Siamo moderni non solo quando pensiamo alla verità (114), ma anche quando trasferiamo questo pensiero in politica, nelle nostre divisioni tra fondamentalismo e relativismo (115) o tra multiculturalismo e integrazionismo (121), quando risolviamo l’educazione in cognitivismo o emotivismo (30), quando – come Svevo – viaggiamo tra “un pensiero senza affettività e un’affettività senza pensiero” (142).



Questo baratro che si è creato tra ragione e sentimento, tra soggetto e oggetto è la negazione della forza costitutiva del rapporto che già siamo. È il rapporto tra soggetto e dato, anzi tra dato e soggetto a essere originario. Per questo Esposito sottolinea tutte quelle esperienze di pensiero che sono vere e proprie performances fenomenologiche: Agostino, Dante,il Cartesio della III meditazione (letto secondo la recente tradizione francese), Giussani. È una fenomenologia del rapporto che ci fa capire di essere già dentro un’unità più profonda di quanto non pensiamo, un’unità che dovremmo più riscoprire che inventare moralisticamente.



A differenza di quanto sosteneva James, però, il centro della questione non risolve tutto nel caso di Esposito. Il contorno a mio avviso è quasi più importante del centro. La cifra costitutiva del pensiero di Esposito, infatti, non è la condanna della modernità, ma il considerarla una possibilità. Il rapporto costitutivo non si otterrà con un semplice ritorno al passato, ma con un attraversamento dell’intera dinamica della modernità in cui siamo immersi, nichilismo incluso. Tre sono i fattori più interessanti da questo punto di vista: il caso, l’individuo e il niente.



Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da un pensiero dichiaratamente e coraggiosamente cattolico, il libro di Esposito fa emergere una valutazione positiva del dramma della casualità così come l’uomo l’avverte in tutta la sua assenza di pacificazione consolatoria. Persino in una tragedia come quella dello Tsunami del 2004, Esposito sottolinea che la circostanza fatale ci fa scorgere per un attimo la nostra situazione mortale, segnata da una fragilità strutturale ma anche da una volontà di vivere irriducibile (234). “L’incertezza è il riverbero di altro” (4). La casualità che la filosofia e la religione cercano spesso di ridurre o sopprimere rimane in tutta la sua ambivalenza di scacco e allo stesso tempo diparadossale speranza dell’apparire improvviso del momento della grazia. Nulla di più lontano dalla rassegnazione sentimentale o dall’argomentazione razionalista con cui alle volte si spiega ciò che non si comprende con un generico “disegno di Dio”. Esposito evidenzia la contraddizione e lascia che essa sia un urlo di bisogno di salvezza.

Il nichilismo stesso, estrema landa del pensiero moderno, è sentito come un punto privilegiato per questa percezione drammatica dell’essere: “il nichilismo è il nostro destino o è una via, paradossale quanto inaspettata, per riscoprire che il destino del nichilismo è l’evento sorprendente dell’essere?” (196). Meglio allora essere nichilisti? Forse no, ma guai a chi, sembra dire Esposito, non ne percepisce le ragioni e, in qualche modo, il fascino.

Infine, l’individuo. Il rapporto soggetto-mondo è costitutivo e il dato ha di certo una preminenza. Ma, quasi fuori dalla penna, Esposito non ha dubbi su quale sia il lato da cui egli preferisce avvicinarsi: molto modernamente, la sua filosofia è un’elegia dell’io, del soggetto e della sua individualità. “‘Io’ è la cosa più mia che ci sia – il mio io, la mia coscienza, la mia libertà, la mia azione, i miei pensieri – è la cosa più vicina a me” (143). L’apertura all’altro, anche quando l’altro è Dio, è proprio per la salvaguardia di questo “io”, in tutta la sua gigantesca dimensione. Tanto che l’educazione stessa è legata solo ed esclusivamente alla comunicazione dell’io (28-29).

Sono ovviamente tesi forti, sulle quali ci sarebbe molto da discutere, a cominciare dall’ultima: un “io” che non genera un metodo è un “io” compiuto? E poi: qual è la logica, se c’è, di quel rapporto costitutivo? Che tipo di epistemologia segue a questa ontologia del rapporto costitutivo? È l’individualità occidentale o la comunione della tradizione ortodossa che si trova all’origine dell’io da un punto di vista sociale? Come il rapporto originariocon il dato si traduce in politica, in educazione, in bene per tutti?

Vengono in mente tante domande, e molte di più ne verranno ai lettori, ma è proprio questo inizio di dialogo sincero che segna l’incontro con un vero “io”.