Par Lagerkvist, premio Nobel nel 1951, indaga spesso, sia nei romanzi, sia nella sua produzione poetica la solitudine dell’uomo. La descrizione più nota che ne ha tracciato è quella che si trova in Barabba, il romanzo che ha come protagonista l’uomo che Gesù ha sicuramente salvato dalla morte. L’ultima sua opera, Mariamne, pubblicato nel 1967, ritorna alla storia degli ebrei negli anni attorno alla nascita di Cristo, sulla scorta delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, che dedica un certo spazio alle vicende matrimoniali del re Erode. E’ il racconto di due solitudini intrecciate, che approdano a un tragico epilogo.
Il re Erode è descritto come un uomo violento, sensuale, odiato dagli ebrei su cui regna perché non fa pienamente parte del popolo di Israele. E’ un abitante del deserto e come tale feroce e sospettoso, ambizioso al punto da far costruire un tempio al Dio in cui non crede, purché resti una traccia del suo nome più duratura del tempio di Salomone. Vaga con passo pesante nella grande costruzione che sta per essere ultimata, durante le notti solitarie e insonni. “Ma prima di andarsene per far ritorno al palazzo, si fermava un momento a guardare l’ampia distesa del cielo stellato sopra di sé, e lasciava che le stelle affondassero i loro dardi nella sua solitaria anima del deserto di cui non sapeva nulla”.
E’ un uomo di potere, di azione, un predone; non è abituato a soffermarsi su altro che sulla conquista. Ma neppure lui sa sottrarsi alle stelle; un’altra luce argentata ben presto lo attira.
Un giorno si trova a pochi passi dalla porta della città, sulla via di Damasco, “quando lei gli passò davanti. Tutto qui. Eppure quell’attimo fu così diverso dall’attimo precedente, in cui non era accaduto, che niente fu più come prima, né la luce del sole, né il terreno, né l’erba rasa sul terreno, né i fiori nell’erba. Che fiori potevano essere? Non li aveva mai visti. I greggi di pecore avevano brucato l’erba, ma avevano risparmiato i fiori, li avevano lasciati intatti. C’erano sempre stati, evidentemente, ma non li avrebbe mai notati, se lei non gli fosse passata davanti. La donna era giovane, esile e insolitamente bionda per essere una giudea. Come tutte le nobili era vestita alla greca e aveva coperto il capo e i capelli biondi con un lembo del suo mantello di lino bianco. Il suo passo aveva la leggerezza di un uccello e portava sandali fatti di una suola sottile e un laccio d’argento legato attorno alla caviglia. Camminava come priva di peso”.
Erode se ne innamora. Pur venendo a sapere che Mariamne proviene dalla stirpe dei Maccabei, la cui potenza egli aveva cercato di distruggere, è così diversa dalle tante donne che aveva avuto che la chiede in sposa. Dopo qualche esitazione, a costo di separarsi per sempre dalla sua famiglia, lei acconsente: soddisfa i suoi sensi, ma non riesce ad amarlo; prova per lui solo pietà, eppure lo desidera. A poco a poco si scava tra i due un abisso di estraneità. Erode, che il matrimonio sembrava avere ammansito, ritorna alla vita di prima, tra cortigiane e battaglie. Sempre più diffidente e violento, deluso di sé e della sposa, ordina a un sicario di ucciderla. Ma si pente, torna al palazzo in tempo soltanto per raccoglierne l’ultimo respiro.
Appare la stella dei Magi. Erode ordina la strage dei santi innocenti. E infine muore, solo, nel palazzo vuoto, abbandonato da tutti i suoi funzionari, sulle labbra il nome di Mariamne.
Un libro breve dalla scrittura scarna, atta a ritrarre le pieghe talvolta inspiegabili dell’anima dell’uomo e della donna.