Forse tra qualche giorno o qualche settimana sui giornali e sui media non si parlerà più della strage dell’isola di Utoya. E sarebbe un guaio perché questo inaudito fatto di uccisione di massa di giovani è un terribile segnale di allarme non tanto per eventuali escalation terroristiche, che possono verificarsi su versanti nuovi rispetto a quelli tradizionali, ma perché esso mostra, come ha scritto egregiamente Claudio Magris nel miglior commento che ho letto in questi giorni, la continua latenza del male che può sconvolgere in ogni momento la nostra quotidiana convivenza gomito a gomito: “quel meccanico e ripetuto premere il grilletto fa somigliare quell’assassino al meccanismo di una mostruosa catena di montaggio… il suo delitto è non solo la cosa più orrenda, ma anche la più stupida, meccanica e ottusa della sua vita”.
È questa intuizione della meccanicità del gesto omicida che deve portarci a riflettere, così come la reiterata affermazione dell’assassino di aver dovuto agire così per rispondere ad un’implacabile necessità, il suo riconoscersi autore del delitto ma come un “essere umano” sovrastato e determinato dall’assoluto imperativo di uccidere per realizzare la propria “missione”.
Certo, Magris aggiunge che nessun essere umano cresce e si sviluppa nel vuoto assoluto e che ciascuno di noi, a suo modo, esprime lo spirito del proprio tempo, le culture che ha frequentato e gli ambienti in cui è vissuto, ma tutto questo, se non si vuole cadere nelle strumentalizzazioni ideologiche, non spiega ciò che è accaduto, anche se un povero di mente come Borghezio ha osato dichiarare pubblicamente di condividere le farneticanti parole di Breivik.
Non siamo in presenza di una nuova forma di “terrorismo cristiano”, né di un fenomeno di riorganizzazione di gruppi estremisti di destra come gli skin, che sono presenti un po’ dovunque in Europa. Probabilmente quando gli accertamenti giudiziari saranno completati emergerà con chiarezza che Breivik non fa parte di organizzazioni intese a promuovere una reazione di massa anti-islamica, antimarxista e antimulticulturalista. L’assassino dell’isola di Utoya è una personalità solitaria, vissuta e cresciuta in un suo mondo privo di ogni rapporto con la realtà che, casomai, si è alimentato, come scrive Sofri su La Repubblica, di una congerie indigesta di sub-culture mistiche e tecniche, le cui versioni spettacolari hanno avuto grande fortuna nei nostri anni nel nuovo mondo della comunicazione mediatica. Nella sua mente si sono via via costruite le immagini di un fanatico servitore della purezza della razza umana, modellate sulle azioni di personaggi metà uomini e metà macchine che compiono inaudite azioni di guerra per salvare l’umanità da popoli nemici e che popolano l’immaginario della violenza mediatica. Breivik mi dà più l’idea di un androide telecomandato che agisce in uno spazio totalmente irreale, popolato paranoicamente da nemici assoluti.
Quello di Breivik è il primo atroce delitto di un essere umano divenuto alieno a se stesso, che agisce in uno stato di necessità per realizzare l’obiettivo che gli è stato imposto da una Autorità del male che ha lo scopo di ripulire la terra da tutto ciò che è impuro. Ciò che emerge nei suoi comportamenti e nelle sue farneticanti dichiarazioni è l’assoluta assenza di riferimenti alla realtà e il carattere per certi versi metastorico e trascendentale del suo progetto di omicidio di massa. Per riuscire a cogliere la specificità di questa nuova tipologia di assassino, bisogna confrontarlo con altri fenomeni di violenza omicida che pure oggi hanno riscontro nella realtà quotidiana.
Abbiamo letto di un vecchio pensionato che reagisce agli insulti di un giovane motorista inseguendolo e triturandolo sotto le ruote della sua macchina. Violenza omicida anche in questo caso, ma di un uomo che viene colto da un raptus e non riesce più a contenere le sue emozioni aggressive. Certo, violenza omicida ma connessa ad una incapacità di contenere i furori aggressivi che possono stravolgere anche la vita di un uomo normale. Al contrario Breivik è un pianificatore freddo dell’assassinio, che tende a presentarsi come un puro esecutore di un disegno superiore al quale non può sottrarsi. Anche le brigate rosse, nella loro follia assassina, fondavano le loro azioni su un’analisi della società contemporanea, del capitalismo delle multinazionali e delle lotte del proletariato urbano che cercavano di sollevare per una rivoluzione imminente. Analisi collettiva, gruppi di azione organizzati militarmente, obiettivi scelti in modo altamente simbolico per trovare consenso sui loro terribili misfatti.
Nulla di tutto questo è presente nel caso di Breivik, che pianifica in una casa di campagna tutto il percorso che lo condurrà da solo a diventare lo Sterminatore Universale. Egli continuamente dichiara di avere dispiacere per le sue vittime, ma ripete continuamente che la sua impresa è stata atroce ma necessaria e, come sottolinea Sofri, “pretende di non amare la violenza ma di sacrificarsi alla sua pratica per la causa superiore degli ideali”. Breivik inaugura la stagione del terrorismo solitario del missionario della violenza che serve pur non amandola.
Credo che sia fuorviante, nonostante l’assoluta stupidità di Borghezio che sembrerebbe dargli ragione, ricondurre la strage di Breivik ad un progetto di destra eversiva che pratica la xenofobia e la persecuzione razziale. Nel mondo giovanile europeo, in verità, tendenze estremistiche sostanzialmente fasciste, fondate su gerarchie e aggressione dei più deboli, sono state diffuse da sempre. Ricordo, ad esempio, che da ragazzo, quando insieme ad alcuni amici mi sono trovato in Olanda, ho potuto constatare che i grandi parchi erano sotto il controllo di bande di ordiners (era il nome di allora) che esercitavano la minaccia e il pestaggio degli stranieri che osavano frequentare i loro luoghi. Non c’è dubbio che questa mitologia della caccia allo straniero e del rifiuto di ogni estraneo siano alla base di molte aggregazioni giovanili che praticano la violenza nei confronti di chiunque appaia ai loro occhi umanamente depravato soltanto perché inabile o appartenente ad altre nazionalità.
Questo è certamente ancora un tema molto forte nella cultura giovanile, ma vorrei ricordare che negli anni di piombo si formarono gruppi di “nazi-maoisti” che era difficile ascrivere ad alcuna ideologia precisa che non fosse quella della paranoia collettiva e persecutoria, qualche volta alimentata e appoggiata da settori deviati dei servizi segreti che li usavano come mezzi per la strategia della tensione e della destabilizzazione democratica. Bisognerebbe provare ad analizzare questi movimenti e queste culture con molta obiettività e capacità analitica per individuare i vari tipi di violenza assassina che si nascondono nelle pieghe della vita quotidiana: il fanatismo collettivo paranoico, l’incapacità di contenere le emozioni aggressive, i progetti più schiettamente politici di sovversione dell’ordine costituito, e così via. Ma nel caso di Breivik queste categorie mi sembrano insufficienti. Qui bisogna assolutamente analizzare la novità di questo nuovo tipo di uomo alienato che ha formato la propria immagine di sé interagendo principalmente col sistema mediatico, da cui ha attinto modelli di comportamento e idee, e facendo della pura azione violenta la ragione della propria identità perversa. Ciò che caratterizza questi casi, che a mio parere saranno sempre più in aumento, è l’assoluta autoreferenzialità dell’assassino, la sua mancanza di ogni senso della realtà e il suo esser posseduto da un’idea persecutoria maniacale.
A mio avviso si tratta di una nuova forma di patologia umana che si può classificare come una vera e propria alienazione mistico-tecnologica in cui l’essere umano viene trasformato dall’interazione con la macchina in una sorta di robot del male, abitato dagli oscuri comandi di potenze invisibili. Una nuova forma di alienazione che colpisce individui isolati a causa del loro rapporto simbiotico con mondi virtuali creati dal rapporto con le nuove forme di comunicazione mediatica. Questo tipo di personalità perversa uccide come in un videogioco e tende a “filmare” se stesso come attore di una messa in scena dominata dalla morte e dal sangue. È molto più che un delirio di onnipotenza, perché questo tipo di personaggio è allo stesso tempo un superuomo ma anche lo schiavo esecutore di comandi che riceve dall’esterno della propria sfera emotiva e percettiva.
Siamo molto vicini all’idea di un uomo robotizzato e programmato per uccidere che considera la propria attività un’assoluta necessità meccanica.
Ciò che è chiamato in causa di fronte ad un evento di questa portata, a mio avviso epocale, è il sistema educativo e di socializzazione primaria e secondaria degli esseri umani, giacché una connotazione di questi personaggi è spesso la totale anaffettività, una sorta di anestetizzazione delle dimensioni affettive e passionali della vita umana. Per questo bisogna prendere in considerazione molto seriamente la tragedia dell’isola di Utoya, non tanto perché le vittime sono giovani socialisti che credono ancora nel futuro, ma perché sono ragazze e ragazzi che reagiscono all’indifferenza del mondo cercando la via dello stare insieme come senso di un radicamento umano nell’effettività delle relazioni di amicizia e di svago.
Al di là di tutte le interpretazioni, l’Occidente deve guardare a fondo nella mente di questo assassino per capire come i germi di questa disintegrazione della persona umana siano più diffusi nella vita quotidiana di quanto noi stessi non riusciamo a percepire. L’Occidente malato sta sicuramente allevando i propri mostri ma non capirà veramente la portata del problema se continua a interpretare questi eventi come frutto di pura pazzia o come risultato di complotti eversivi. Qui è in gioco per la prima volta, in modo evidente, il tipo di uomo che la società occidentale nel suo insieme sta facendo nascere dal suo seno apparentemente normale. Guai a pensare che un processo e una condanna esemplare di Breivik ci potranno consentire di voltare pagina, ritenendoci totalmente estranei ad una vicenda che, come dice Magris, è pur sempre la vicenda di un essere umano che abita insieme a noi questo disastrato pianeta senza ideali e senza modelli positivi che possono contenere le potenze oscure del male che ci circonda e in cui siamo immersi.
La condanna esemplare chiude la partita del reato e della pena ma non quella della interrogazione sul perché oggi il “male” riesce a vincere tante volte sul bisogno di pace e di fratellanza.