È passato sotto silenzio, nei media, il centenario della nascita (30 giugno 1911), “in una famiglia di lingua polacca sulle rive d’un fiume dal nome lituano”, di Czeslaw Milosz, una delle massime personalità artistiche europee del XX secolo e premio nobel per la letteratura (1980).

Di formazione giurista, già durante gli studi a Vilnius esordì come poeta e fu tra i fondatori del gruppo letterario Zagary. Trasferitosi a Varsavia nel ’37 dove lavorò per la radio polacca, durante la guerra si impegnò nella vita culturale clandestina e fu testimone degli orrori bellici. Nel dopoguerra, con l’instaurazione del potere filosovietico in Polonia, non entrò nel partito comunista pur accettando inizialmente il nuovo regime. Giovane letterato di successo, fu addetto culturale all’ambasciata a Washington e a Parigi.



Presto però fu sempre più evidente l’inconciliabilità fra le sue convinzioni e la realtà dello stalinismo, perciò nel ’51 chiese asilo politico in Francia dove rimase fino al 1960, anno in cui, su invito dell’università di Berkeley, si trasferì in America per dedicarsi all’insegnamento. In quegli anni affiorò in lui la ricerca di Dio e il superamento del relativismo, per approdare alla certezza che nell’uomo c’è qualcosa di divino che resiste a ogni tentazione nichilista: “Il cattolicesimo – scrisse – è la religione più antropocentrica, quasi che, attraverso la sua sovrabbondanza di umanità divina, riesca a resistere alle scienze esatte che annientano il singolo”.



Nel giugno 1981, in piena epoca Solidarnosc, l’Università cattolica di Lublino lo invitò per conferirgli la laurea ad honorem. Dopo l’odissea burocratica per contattarlo telefonicamente negli Usa, restava il problema del razionamento alimentare: in previsione della partecipazione di almeno 400 rappresentanti del mondo della cultura e dell’arte, il rettore chiese al governatore l’assegnazione “di 100 kg di carne suina, 50 kg di vitello, 30 di insaccati della migliore qualità e 200 kg di trippa”.

Milosz non si aspettava tanto entusiasmo, e per non essere assediato dalle decine di giornalisti fu ospitato presso la residenza dell’arcivescovo. La cerimonia dell’11 giugno si aprì con la messa di suffragio per gli scrittori morti durante la guerra, poi seguirono gli interventi nell’aula magna. Milosz riprese il tema della memoria e della manipolazione della storia, che aveva già trattato nel discorso per l’accettazione del Nobel, ennesimo suo testo censurato in Polonia perché, menzionando i suoi “vecchi amici” poeti Sebyla e Piwowar, aveva parlato delle fosse di Katyn’ e dell’alleanza tra l’Urss e la Germania nazista: “Le antologie pubblicano i testi dei miei amici, indicando la data della loro morte: il 1940. È assurdo che non si possa scrivere come sono morti, benché in Polonia tutti sappiano che condivisero la sorte di migliaia di ufficiali polacchi disarmati e internati da quelli che erano allora complici di Hitler… I due dittatori omicidi non ci sono più, ma forse hanno ottenuto una vittoria più duratura di quella militare”.



A Stoccolma aveva messo in guardia dagli “illetterati di oggi, che sanno leggere e scrivere e che talvolta insegnano persino in scuole e università”, per i quali “la storia è presente ma sfocata, in uno strano stato confusionale”; al contrario, “la memoria è la nostra forza, ci protegge da un discorso che si attorciglia su se stesso, come l’edera quando non trova un sostegno”.

Compito del poeta è dunque ridestare questa forza: “In una stanza in cui le persone mantengono la cospirazione del silenzio, una parola di verità risuona come un colpo di pistola”. E in Antigone aveva scritto: “Gli sciocchi ritengono di poter vivere felici sacrificando il ricordo del passato”. A Lublino aggiunse con preoccupazione che “la tragedia di questo secolo ha trovato poca espressione nella parola e, quando l’ha ottenuta, si è trattato spesso di frammenti che hanno alterato la realtà”.

Il 12 giugno faceva molto caldo, quando nel cortile dell’Università si svolse l’incontro con i rappresentanti del sindacato libero Solidarnosc. Nell’introdurre l’ospite, un emozionato Jerzy Kloczowski scambiò i nomi e diede il benvenuto “a questa persona a noi così cara, il signor Czeslaw Walesa”… Il poeta recitò Sortilegio: “Bello e invincibile è l’intelletto umano. Né inferriata, né filo spinato, né libri al macero, né verdetto di bando possono niente contro di lui. E ci guida la mano; scriviamo quindi con la maiuscola Verità e Giustizia, e con la minuscola menzogna e offesa… Dall’immondo strepito di parole slabbrate, salva frasi austere e chiare. Egli ci dice che tutto è sempre nuovo sotto il sole”. Alle parole conclusive della poesia Tu che hai oltraggiato, la commozione generale era palpabile: “Tu, che un uomo semplice hai oltraggiato / ridendo sguaiato sulla sua sorte… Non sentirti sicuro: il poeta ricorda. / Puoi ucciderlo, ne nascerà un altro. Atti e parole saranno fissati”. Era la stessa poesia incisa sul Monumento “delle tre croci” eretto nel dicembre 1980 agli operai dei cantieri navali di Danzica, caduti nel 1970.

Poco prima di morire (2004), si era rivolto a Giovanni Paolo II chiedendo conferma di non essersi allontanato, nelle sue poesie, “dall’ortodossia cattolica”: “La prego di confermare questo mio desiderio per il nostro comune scopo”. L’autorevole conferma arrivò, e riecheggiò pubblicamente nel giorno del suo funerale dal telegramma del papa: “Sono lieto di confermare  quanto Lei scrive sul desiderio che ci accomuna”.