È stato ripetutamente esaminato, negli ultimi mesi (e anni), da varie prospettive, il destino delle biblioteche, e dei libri, specie nella loro forma o accezione “tradizionale”. Ci si è chiesti se come le conosciamo – decine di metri, o chilometri, di scaffali, con migliaia, o milioni, di volumi allineati – le biblioteche non siano ormai reliquie su un binario morto. E se dunque, per rinascere, debbano trasformarsi, almeno in parte, in altro da sé: agenzie formative, pubblici (o privati) dispenser di servizi, spazi di incontro e ricreazione… Oppure, luoghi di speranza, come la biblioteca pubblica di Braddock, evocata da Mario Calabresi in La fortuna non esiste.
La semplice interrogazione, da parte dell’utente, intorno alla natura, e alla funzione, di ciò di cui stiamo parlando potrebbe forse giovare a non perdere di vista l’essenziale. La biblioteca è il luogo in cui il concetto di tradizione da idea astratta diventa realtà vissuta, dove si tocca con mano come nel suo desiderio di verità l’uomo non ricominci mai ogni volta da zero, non agisca mai come soggetto pensante in modo isolato. È ciò di cui ciascuno fa esperienza lasciando scorrere lo sguardo sui volumi pazientemente ordinati: l’essenza della conoscenza umana non sta nella solitudine d’una impresa eroica, ma nel dialogo con la sapienza storica, che deve essere sempre e di nuovo accolta e sviluppata. I due verbi, accogliere e sviluppare, sintetizzano la ragione d’essere delle biblioteche, poiché, epistemologicamente, lo sviluppo è sempre il frutto d’un’accoglienza.
Da questo punto d’osservazione le biblioteche sono un antidoto al rischio che noi si affronti il reale senza viverne pienamente la memoria. Non so immaginare cosa possa aiutare in questo – a fare della tradizione, della memoria il criterio con cui entrare nel reale – più delle biblioteche. Perché, in mezzo a tante difficoltà, è l’appartenenza (a una tradizione fraterna, a una storia e a un luogo condivisi) che invita a essere protagonisti.
Conservazione è memoria, cioè trasmissione di qualcosa che ci precede e ci supera. Ciò che attrae e affascina, quando si entra in biblioteca, è la continuità storica di una verità, che è insieme la nostra eredità e il nostro futuro. La biblioteca è il luogo in cui ciò che è stato tramandato tocca a noi sottoporre a verifica, perché possa continuare a risplendere. Quanto ci è ignoto, tutto quello che ignoriamo, sembra chiamarci e interpellarci con una forza di gravità particolare. Semplicemente constatando, però, il numero dei volumi, si è ridestati dal sogno di poter leggere tutto, di poter imparare tutto. Le biblioteche sono una lezione di umiltà, che ci riconduce alla nostra effettiva “destinazione”.
Prendo a campione un caso estremo, la Widener Library dell’Università di Harvard. I suoi dodici piani contengono oltre 90 chilometri di scaffali e 15 milioni di libri; è una città, popolata da bibliotecari e professori, studenti e dottorandi, falegnami, cuochi, ragionieri, elettricisti… La più grande biblioteca universitaria del mondo. Ci si trova di tutto: i documenti indiani sulle case fatte di erba e fango, l’autografo del Fu Mattia Pascal, i manoscritti di Averroè… Si ha l’impressione che una biblioteca così, in perpetuo arricchimento (ogni settimana entrano molti più titoli di quanti una persona potrebbe leggere in una vita), tenda idealmente ad abbracciare la totalità delle esperienze umane. Come una spiaggia a cui arrivano tutte le vicende reali che siano state affidate alla parola scritta. Questo oceano, questa alluvione, questa foresta di libri suscitano, forse giustamente, ansia e sgomento. Ma quest’ansia e questo sgomento legittimano il nostro compito e la nostra responsabilità. Poiché, se pure non possiamo leggere tutto, dobbiamo identificare – nell’oceano – rotte lungo le quali si possa capire, oggi, chi siamo, dove siamo arrivati, e chi o cosa ancora ci aspetta domani.
Fra i libri come nella vita, dobbiamo scegliere le nostre compagnie. Senza pregiudizi, scovando genio e grandezza anche tra le pagine di ciò che potrebbe sembrare insignificante. La testimonianza è sempre il passo successivo della scoperta. Lavorando in biblioteca si sperimenta la funzione terapeutica dello studio come ascesi, ossia “applicazione che l’uomo fa delle sue energie in un lavoro su se stesso, intelligenza e volontà”. La biblioteca è, in quest’ottica, un sacro deposito di civiltà, una riserva prodigiosa di energie.
Il vero problema, oggi, non è la perdita dei libri. Grazie a biblioteche come quella di Harvard, i libri non li perderemo mai. Il problema è la perdita, l’oblio del mondo che quei libri rappresentano. È anche un problema di numeri (i numeri: le misure della realtà, di cui a volte ci scordiamo): la biblioteca del Congresso di Washington contiene oltre 100 milioni di libri in 450 lingue diverse. Nella scelta (i cento o cinquanta titoli da leggere nei prossimi dieci anni), vorrei non perdermi il meglio. E vorrei non lo perdessero i miei studenti, i miei amici. Il meglio, ciò che illumina il valore di ogni esperienza. I segni di Dio dentro le cose provvisorie di ogni giorno: i documenti di Lui all’opera in mezzo a noi.