Edoardo Nesi, 47 anni, è lo scrittore pratese che ha vinto l’ultimo premio Strega con Storia della mia gente (Bompiani, 2010, pp. 163, 14 euro). Il libro, sorta di autobiografia romanzata, intreccia i ricordi personali con le vicende economiche degli ultimi anni che hanno visto il declino del distretto tessile di Prato, di cui in passato ha fatto parte anche l’azienda familiare dei Nesi. Un’azienda ormai ceduta ad altri, come apprendiamo fin dalle prime pagine, presente il medesimo scrittore in qualità di legale rappresentante davanti al funzionario incaricato dell’atto di vendita.
Ma il funerale dell’impresa di famiglia è solo l’inizio. L’intera opera ha un sentore mortifero e si allarga a cerchi concentrici nel lamentare la scomparsa di una generazione di imprenditori – soppiantati dall’arrivo dei cinesi con la complicità della globalizzazione – e nel compiangere un territorio impoverito perché costretto a rinunciare alla sua naturale vocazione produttiva. Se si volessero rintracciare dei precedenti illustri nei generi letterari, si potrebbe evocare l’elegia: un “canto del dolore”, che insieme è grido d’amore, per il tramonto di un’epoca e di una tradizione. O addirittura l’epicedio, il componimento in morte di qualcuno che, in questo caso, ha il volto plurale della “gente” del titolo. A cui si aggiunge una nutrita schiera di persone che condividono lo stesso destino: “La mia gente – scrive l’autore – non sono solo i pratesi. A declinare e a soffrire, oggi, sono anche i distretti tessili di Biella e Como, di Lecco e Carpi, della Val Seriana e di Chieri in Piemonte e Bronte in Sicilia; i distretti dell’abbigliamento di San Marco dei Cavoti e di San Giuseppe Vesuviano; il distretto di Aiola vicino a Benevento e quello di Calitri, sempre in Campania; il distretto di Vibrata in Abruzzo e il distretto del jeans nel Monferrato”.
Stessa sorte, si legge, è toccata alla ceramica, al mobile, al calzaturiero. A tutto il manifatturiero italiano. Nesi dà voce a un mondo in via di estinzione e al gemito di chi non vorrebbe arrendersi al terremoto che ha investito l’economia italiana e planetaria. Per farvi fronte, si affida a un appello – che riproporrà il 21 luglio 2010 sulle colonne del Corriere della Sera – affinché la politica risollevi le sorti di un tessuto imprenditoriale da cui lui stesso è fuggito.
Paolo Preti, professore di Organizzazione delle piccole e medie imprese nell’Università Bocconi, nel recente Il meglio del piccolo (Egea, 2011, pp. 214, 25 euro) dà un nome alla posizione incarnata da coloro che come l’ex “industriale di provincia” hanno gettato la spugna. Li chiama “i perdenti”. Sono quelli che si appellano a un’istanza superiore alla ricerca di una salvezza che risollevi le sorti del lavoro e dell’iniziativa privata; quelli che guardano al futuro a partire da un giudizio negativo sul presente. “Riflettere sulla propria storia – sottolinea Preti a proposito del romanzo di Nesi -, anche attraverso la narrazione, è utile per capire dove si è sbagliato e, dunque, per farsene una ragione, non per scaricare su altri le proprie, in senso lato, scelte e responsabilità e, da ultimo, il proprio destino”.
A riprova di questo, il docente ricorda che “negli stessi anni e nello stesso distretto pratese altre imprese hanno saputo, sia pure con grande fatica, rinnovarsi e trovare nuove modalità competitive”. Che non è, evidentemente, un giudizio negativo sulle qualità letterarie di Storia della mia gente, quanto un’idea di impresa e imprenditore opposta rispetto a quella diffusa dall’opera vincitrice del premio Strega e ben documentata nei tanti casi aziendali presentati nel volume di Preti. Molti dei quali dimostrano che il riconoscimento, sereno e senza alibi, delle proprie debolezze e criticità può fungere in diverse occasioni da grimaldello per la ripartenza.
Perfino Edoardo Nesi, tra amore e rabbia, non può fare a meno di confessare: “È anche colpa nostra, che pensavamo di poter continuare all’infinito a fare il mestiere dei nostri padri come se fosse un diritto acquisito e intoccabile, che ci illudevamo di poter vendere nel terzo millennio gli stessi tessuti che producevano loro, fatti delle stesse materie prime e degli stessi filati, e tesserli sugli stessi telai, tingerli degli stessi colori, rifinirli allo stesso modo e venderli ai soliti clienti, nei soliti mercati”. Ma questa ammissione è troppo poco, è soltanto il punto di partenza. Non basta a fare di uno scrittore anche un imprenditore.