Il 27 febbraio 1886 è una data importante non solo nella biografia di Vincent Van Gogh ma della storia della pittura moderna. È il giorno in cui l’artista approdò a Parigi da Anversa, avendo preso la decisione di stabilirsi nella casa del fratello Theo in Rue Lepic, nel cuore di Montmartre. A Parigi Van Gogh era già stato dieci anni prima, quando faceva un altro lavoro e la pittura non era ancora entrata nella sua vita. Questa volta Van Gogh arriva invece avendo ormai scoperto nella pittura la propria vocazione. Parigi in quegli anni era davvero la città in cui stavano accadendo tutte le grandi novità: basti pensare che nel 1886, per l’appuntamento annuale del Salon Georges Seurat aveva presentato il suo capolavoro, Une dimanche aprés-midi a l’île de la Grande Jatte, che inaugurava la tecnica del pointillisme; con lui esponevano Gauguin e Degas, mentre Renoir e Monet avevano scelto il Salon des Indipendents.



Van Gogh veniva da una caparbia esperienza di pittura legata alla propria storia contadina. Una pittura buia, fatta quasi di terra, perché la terra era la cifra della vita delle persone che posavano per lui. Arrivato a Parigi guarda con una certa distanza alla libertà di sapore per lui un po’ borghese che gli impressionisti avevano introdotto. Antropologicamente lui sente di appartenere ad un altro mondo; tant’è vero che nel 1887 quando a Parigi vengono esposti i quadri di François Millet (il pittore del celebre Angelus) rimasti nello studio dopo la sua morte, lui resta folgorato e lo sceglie istintivamente quasi come proprio padre nella pittura. Ma il contatto con quella Parigi piena di novità poco alla volta lo cambia, generando quasi un nuovo Van Gogh. La mostra in corso quest’estate al Museo Van Gogh di Amsterdam, vuole proprio documentare questa nuova genesi, avvenuta in quei due anni parigini.



Il fattore che gli impressionisti avevano introdotto dando una svolta alla storia della pittura, era certamente il fattore della luce. Il “plein air” era essenzialmente questo: la luce atmosferica aveva invaso la pittura. Van Gogh se ne lascia contaminare in un processo lento, quasi non si fidasse delle conseguenze di quella libertà, che rendeva moderna la pittura ma rischiava di ridurla a espressione di un bel vivere borghese. Negli anni parigini lo vediamo dipingere qualche paesaggio di una città in grande trasformazione. Ma per lo più lui sceglie di dipingere nella stanza di Rue Lepic. Realizza una ventina di autoritratti (uno si è scoperto essere in realtà un ritratto di Theo, l’unico che gli abbia fatto: è una delle sorprese della mostra), e poi tante nature morte, compresa una bellissima in cui mette in posa sparsa i tanti libri letti in quei mesi.



Così poco alla volta emerge con chiarezza qual è il punto su cui lui in realtà sta lavorando: non la luce in sé, ma la luce come mezzo per accendere il colore. “Il pittore dell’avvenire deve essere un colorista come non ce n’è mai stato uno”, scrive al fratello Theo. Il colore diventa il centro di ogni suo pensiero e di ogni sua ricerca. Perché il colore è la strada per cogliere lo splendore del vero. Per cercare l’“alta nota gialla” come scriverà in un’altra lettera; la “nota” che riallaccia un filo diretto, visibile, teso tra la realtà e l’infinito. Per questo ad un certo punto Parigi non gli era bastata più. Cercando una luce più pura e più assoluta nel febbraio 1888 Van Gogh prese il treno per Arles, dove in due anni avrebbe realizzato tutti i suoi grandi capolavori, alla luce “di un sole che inonda tutto di oro”.

 

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