“La modernità non consiste certo solo di negatività. Se così fosse, non potrebbe durare a lungo. Essa ha in sé grandi valori morali che vengono proprio dal cristianesimo, che solo grazie al cristianesimo, in quanto valori, sono entrati nella coscienza dell’umanità”.

Estrapolato dal suo contesto, l’elogio dell’anima buona che si nasconde nelle pieghe profonde della modernità figlia della tradizione europea potrebbe sembrare a qualcuno un po’ romantico ed eccessivamente ottimistico: eppure è impregnato del sano realismo che sta alla base del giudizio storico-culturale elaborato da Joseph Ratzinger/Benedetto XVI in quanto sistematizzatore della posizione cristiana di fronte alle sfide del nostro contesto contemporaneo.



La frase citata è attinta, precisamente, dal recente libro-intervista a cura di Peter Seewald, Luce del mondo, ed è stata ripresa anche da Francesco Ventorino in un suo intervento di presentazione del volume. Piaccia o non piaccia, è una prospettiva di valutazione piena di ragioni e altamente comprensiva, aperta a tutte le dimensioni globali di quel mosaico intricato che è il mondo in cui abitiamo.



Vale la pena prenderla veramente sul serio come ipotesi di lettura e metterla alla prova con la massima cordialità fiduciosa, cominciando dai frammenti di realtà del passato con i quali ci si imbatte quando ci si misura con le creazioni artistiche, le memorie letterarie o i racconti storici che ce ne restituiscono, oggi, le voci e il pensiero più autentico, al di là degli schemi e dei pregiudizi superficiali di cui si rischia a volte di rimanere prigionieri.

Un aiuto significativo in questo senso è ora offerto dalla traduzione in lingua italiana della sintesi del gesuita Robert Bireley sul rinnovamento cattolico della prima età moderna: Ripensare il cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma (Marietti). Nella versione italiana, per esigenze di semplicità nella divulgazione del messaggio, è stata introdotta nel titolo la parola “ripensare”. Ma nella versione originale americana, del 1999, al posto di “ripensare” si trova un ancora più forte “rimodellare” (The Refashioning), che dallo spazio delle nostre concezioni intellettuali ci riporta alla sostanza degli sviluppi storici ricostruiti; così come, invece che davanti alle “nuove interpretazioni”, siamo messi di fronte, più ambiziosamente, alla proposta di una “revisione” o “riformulazione”, in senso generale (A Reassessment), di ciò che un tempo si usava chiamare Controriforma, ma che Bireley cerca di ridisegnare, appunto, sotto un profilo diverso, tale da richiedere l’abbandono di vecchie etichette al fondo polemiche, per passare ad altre categorie di giudizio più adeguate all’oggetto a cui si riferiscono.



In effetti, come sa bene chi ha un minimo di dimestichezza con la storia religiosa del nostro Occidente, la critica dell’unilateralità contenuta nello stereotipo negativo della “Controriforma” era già stata portata avanti, ai massimi livelli della storiografia europea del pieno Novecento, da Hubert Jedin. Ma Bireley, rifacendosi piuttosto alla nuova sensibilità maturata nella scia delle ricerche degli ultimi cinquant’anni, riprendendo la terminologia lanciata da un altro autorevolissimo studioso gesuita attivo ai nostri tempi (John O’Malley), oltrepassa anche il recupero tentato da Jedin a favore della corrente positiva di una “Riforma cattolica” anteriore e parallela al movimento della Controriforma.

Come O’Malley, Bireley opta decisamente per l’uso dell’unico concetto generale di “cattolicesimo della prima età moderna”: dove lo spauracchio della contrapposizione all’altra grande Riforma (quella protestante) cessa finalmente di essere la chiave di volta su cui far gravitare tutta la costruzione di un cattolicesimo riorganizzato sulle sue fondamenta e riadattato alle esigenze di un universo mutato, dopo la fuoriuscita da quello che da tre secoli o poco più si usa chiamare “Medioevo”.

Ricapitolando i frutti più aggiornati della ricerca internazionale sulla storia cristiana del mondo moderno, il libro dello studioso nordamericano traccia in alcuni avvincenti capitoli il volto dinamico e potentemente creativo di una religione che non era lo stanco relitto di una pur gloriosa tradizione del passato, ma una forza viva che ha contribuito, con un ruolo di primo piano, proprio allo sviluppo, in un senso nuovo, della civiltà umana che – quella tradizione – aveva ospitato e fatto crescere nel suo seno fecondo.

L’elemento dinamico sta appunto, per Bireley, nella capacità di “rispondere” ai cambiamenti che si stavano dispiegando, senza chiudersi nella difesa a oltranza delle vecchie posizioni garantite. Il nuovo che avanzava era una domanda o una “sfida” che sollecitava la coscienza cattolica a reagire, attingendo dal patrimonio della sua straordinaria ricchezza idee, stimoli e progetti che poi venivano ad amalgamarsi con il vigore prorompente di scoperte e acquisizioni rivestiti del fascino di una originalità trascinante e plasticamente mobile, carica di tenace forza propositiva.

Questa parabola di intelligente messa a profitto delle risorse contenute nel proprio codice genetico è delineata da Bireley in rapporto alla fioritura dei nuovi carismi e dei nuovi modelli di santità attiva, che hanno rivoluzionato i quadri delle istituzioni della Chiesa di Roma e dilatato in senso ancora più impressionantemente pluralista il ventaglio delle sue forme di vita religiosa comunitaria, prima e dopo il concilio di Trento (mentre la Riforma, al nord, tendeva a ridurre tutto a uno schema filoparrocchiale appiattito in senso livellatore).

Ma la dinamica riemerge anche sul fronte dell’invenzione di una strategia educativa intensificata per raggiungere l’individuo, ancorata alla cura della coscienza personale dell’io, allo sfruttamento delle risorse della cultura scritta, del catechismo e della scuola, al disciplinamento della condotta pratica attraverso l’elaborazione di sistemi di regole, di guide, di manuali, di “esercizi”, di modelli ideali nei quali rispecchiarsi e da cui lasciarsi indirizzare per imprimere una “forma” alla propria vita nel mondo.

La stessa ansia di proporre una rete globale di significati per la vita di ogni uomo si riversò, già a partire dai primissimi avvii del mondo moderno, in una nuova “evangelizzazione” destinata a proiettarsi decisamente, per la prima volta nella storia, oltre i confini dell’Europa. Le missioni erano rivolte però anche all’interno, verso il restauro del vecchio impianto della cristianità del continente e in vista del rilancio della sua coscienza etica collettiva, sullo sfondo di una grande opera corale che entrava in dialogo con le esigenze della politica e del consolidamento degli apparati dello Stato, così come si piegava sulle forze segrete della natura e cercava di impadronirsi dei suoi meccanismi per manipolarli a vantaggio della centralità del benessere dell’uomo, servendosi della scienza e della tecnica come prolungamenti necessari della gestione responsabile della totalità del creato.

L’esito forse più sorprendentemente moderno di questo sforzo di “ripensamento” dell’innesto della fede cattolica nella realtà del mondo è stata la riscoperta sempre più lucida e consapevole della possibilità di vivere il cristianesimo, “nella sua pienezza”, non solo in uno stato di perfezione separato dalle condizioni della massa del popolo dei fedeli, ma anche dentro il flusso di una “secolarità” plasmata dai doveri del governo della famiglia, dagli impegni quotidiani del lavoro, nell’immersione più ampia e coinvolgente dentro la vita collettiva della società: una fede totalmente incarnata, ma capace di riconvertire la “carne” stessa della vita del mondo.