In occasione del centenario della nascita di Giorgio Scerbanenco, i giornali sembrano rivalutare questo giornalista e scrittore molto prolifico di origine ucraina, a lungo sottovalutato perché praticava generi letterari minori.

Nasce a Kiev il 28 luglio 1911 da padre ucraino e madre italiana. Il padre muore durante la rivoluzione russa e la madre si trasferisce in Italia con il figlio a Roma e a Milano. Anche la madre muore in breve tempo. Non può completare gli studi, fa diversi mestieri prima di arrivare al mondo dell’editoria come correttore di bozze, redattore, titolare di una rubrica su un giornale femminile.



La sua penna versatile spazia in ogni campo: western, rosa, fantascienza; la fama gli giunge con il giallo, in particolare con il personaggio di Duca Lamberti, che rivela una spiccata conoscenza, anche amara, degli anni Sessanta a Milano e in cui inaugura un linguaggio molto amato dai lettori, diverso da quello che imita gli americani; il contatto diretto con la vita gli offre materiali densi, ritmo incalzante e attenzione ai particolari, che costruiscono racconti polizieschi in cui regna la disillusione. Nel 1968 ottiene il premio più prestigioso per la letteratura poliziesca, il Grand prix de la litérature policière. Al colmo del successo muore improvvisamente nel 1969.



I suoi libri, non solo i gialli, vengono ristampati anche da grandi editori. Mondadori pubblica nel 1989 la raccolta La vita in una pagina, da cui è tratto il breve racconto Innamorati buoni d’inverno, dal sapore agrodolce, in cui l’amore è descritto con un sorriso asciutto e non privo di una certa ironica simpatia.

 

Tremante di febbre, l’aveva misurata poco prima, trentotto e mezzo, e sarebbe ancora salita, lei uscì dal portone e lui, che l’aspettava sulla grossa moto, al vederla nei calzoni di velluto grigio colomba, il maglione rosa, il fazzoletto in testa di lana nera ricamato a roselline rosa e grigie, le tese la mano, la strinse alla vita: “Come sei bella, cocca, amore come sei bella”, e questo non le diminuì la febbre, ma le dette la forza di sopportarla, anche trentanove, anche più, ma non perdere quel suo sguardo, quelle sue parole, quel giorno insieme con lui, per andare con lui al mare, e il mare d’inverno era così bello. C’era tanto sole, tanta luce, ma appena la moto si avviò sentì l’aria come una frusta di ghiaccio frustarla sulla carne ardente di febbre benché fosse protetta dalle sue larghe spalle, avvinghiata a lui con le braccia intorno a lui e nonostante i calzoni, la lana, le maglie, si sentì come nuda fendere un lastrone di ghiaccio, ma non poteva rinunziare a quel giorno con lui. Temeva solo di svenire e guastare tutto.



“Hai freddo?”, lui disse.

“No, sto bene”, gli disse, quasi gridando per vincere il sonoro furore del vento ghiacciato, ormai erano all’autostrada, cento chilometri, neppure un’ora con la potente moto, e poi il mare, con lui, ma prima dell’ingresso sull’autostrada egli si fermò e le volse il viso sfregiato da una smorfia di dolore: “Nini, non gliela faccio”, mise i piedi a terra, “sono stato sveglio tutta la notte per il mal di denti, col freddo mi fanno sempre tanto male, non volevo dirtelo, mi piaceva tanto portarti al mare, ma è un dolore che divento pazzo”, la guardò umiliato.

Battendo i denti lei sorrise felice: “Torniamo a casa, non fa niente”.

 

Scerbanenco era convinto che la vita fosse un pozzo delle meraviglie, in cui c’è dentro tutto, stracci, brillanti e coltellate in gola. In questa pagina ci sono gli stracci di una scrittura parlata che si fa apprezzare per la sua accuratezza e la luce di un inverno riscaldato dalla febbre sì, ma anche da un amore che sa rinunciare, che è sincero, che tace e che è contento. Le uniche coltellate, questa volta, sono solo le sferzate del vento alla velocità della moto. E, fortunatamente, per poco.