La relazione che Costantino Esposito, docente di Storia della filosofia nell’università di Bari, ha tenuto in occasione dell’ultimo Meeting per l’amicizia tra i popoli, il 23 agosto 2011.
Per prima cosa io vorrei ringraziare chi mi ha invitato a parlare sul tema del Meeting di quest’anno, perché mi ha dato l’occasione, direi quasi mi ha costretto a chiedermi con quanta verità mi è possibile – ci è possibile – pensare e dire e domandare della parola “certezza”. A questo proposito devo ammettere, sin dall’inizio, che non c’è nulla di quanto vi dirò che io non abbia imparato, e dunque è proprio questa mia scoperta, molto di più delle opinioni che potrei avere sul tema, ciò che mi preme comunicarvi. Per questo stasera mi permetto di invitarvi a un lavoro comune, perché senza la vostra presenza, e cioè senza la vostra domanda, il mio sarebbe solo un discorso, magari un discorso interessante, e non – come invece spero – un’occasione di conoscenza.
Il mio percorso si snoderà attraverso quattro passaggi e un’apertura.
1. L’incertezza come condizione diffusa del nostro tempo. Sembra che la condizione più condivisa dagli uomini del nostro tempo – tanto diffusa da risultare quasi insuperabile, come una condizione ormai “naturale” – sia l’incertezza. E la cosa ha una sua innegabile evidenza, sia come percezione di una fragilità strutturale a livello psicologico, sia come l’esito di un’insicurezza endemica a livello economico, sociale e politico. Ma il fenomeno merita un’attenzione particolare, perché del tutto particolare è la sua posta in gioco, la provocazione che esso ci lancia, e che difficilmente riusciremmo a cogliere in tutta la sua portata limitandoci alle consuete analisi psico-sociali.
Intervenendo ad un Festival di filosofia dedicato l’anno scorso al tema della “fortuna”, il sociologo Zygmunt Bauman osservava acutamente che tutta la cultura moderna era nata con la promessa di sfidare, in una «guerra totale di logoramento» quel «mostro policefalo» che è l’incertezza (1). A seguito delle guerre di religione che avevano infiammato e sfigurato l’Europa tra il XVI e il XVII secolo, i filosofi avevano concluso che «Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della sua creazione», e che quest’ultima, da parte sua, risultava definitivamente «sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini». Occorreva dunque sottoporre il mondo a «una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell’incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l’ambivalenza, l’indeterminazione e l’imprevedibilità». Questo avrebbe permesso di non far dipendere più la felicità degli uomini dai “colpi di fortuna”, né di attenderla come un dono del cielo, ma di conquistarla come «il prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche».
Tuttavia, questa strategia di controllo non riuscì vittoriosa come si sperava. Ancora nel XVIII e nel XIX secolo si pensava che la mancanza della vittoria definitiva sull’incertezza dipendesse da una serie di problemi non ancora scientificamente affrontati, ma che, con il progresso della scienza, alla fine essi sarebbero stati risolti. La vera novità, il cambiamento drastico, secondo Bauman, è arrivato invece negli ultimi cinquant’anni (ma io direi anche prima), quando ha cominciato a mutare lo stesso significato attribuito alla “contingenza”, cioè alla nostra condizione di essere finiti, e dunque dipendenti dai casi della natura e dagli eventi della storia. Se in precedenza, infatti, ciò che era puramente casuale, imprevisto o incontrollabile era considerato come un fenomeno marginale di disturbo, a partire dalla seconda metà del XX secolo è come se tutto invece convergesse verso la precarietà: dalla conoscenza del cosmo all’analisi dell’io individuale, dalle strutture elementari della materia alla dinamica delle società complesse, i fenomeni collaterali di disturbo venivano interpretati come «attributi primari della realtà e sua principale spiegazione». Così, «oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani».
A livello di esperienza individuale, sono cambiate soprattutto le nostre preoccupazioni e le nostre ansie rispetto all’incapacità di far fronte con i nostri mezzi alle minacce dell’imponderabile e del caso: «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile»(2). Da un lato dunque l’incertezza appare insuperabile; dall’altro lato, però, questo non significa – come ci si aspetterebbe – una rinuncia a trovare assicurazioni per l’esistenza: e da tale contrasto nasce una sempre più diffusa paura.
Così l’organizzazione sociale, che nell’epoca moderna era stata pensata come un argine rispetto all’instabilità e alla conflittualità della natura (pensiamo per esempio a Hobbes), finisce per amplificare e moltiplicare i motivi dell’incertezza. Le soluzioni che finora lo Stato sociale e assistenziale presumeva di poter garantire ai cittadini sono state scaricate sulla capacità dei singoli a trovare risposte individuali a problemi di ordine sociale(3); e tuttavia il più delle volte tale capacità appare come una finzione, perché non ci sembra proprio di possedere la conoscenza e la potenza adeguate per far fronte ai pericoli e agli imprevisti della vita. E questo ha come esito «perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione». E quasi a suggello di questa breve storia dell’insicurezza moderna, Bauman conclude: «Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti».
L’incertezza ci si presenta così come una sorta di “precariato” dell’esistenza: ma se da un lato noi continuiamo ad aspettarci dalla tecno-scienza un controllo previsionale della natura fisica, e a rivendicare dallo Stato la tutela dei nostri diritti individuali e sociali; dall’altro lato queste aspettative e queste rivendicazioni finiscono forse con il coprire quel livello più radicale e più inquietante che sempre, poco o tanto, l’insicurezza rende evidente, e cioè che non siamo i padroni del nostro destino. Ma allora si pone una domanda: la mancanza di certezza coincide totalmente ed esclusivamente con la nostra incapacità a far fronte agli imprevisti della vita, ai casi della natura e agli accidenti della storia? Se la risposta è sì, allora l’incertezza è solo il riverbero di uno scacco, di una condanna, qualcosa come una maledizione. Ma se guardiamo più attentamente, essa è in grado di attestare anche qualcos’altro, vale a dire il nostro essere-esposti costitutivamente a ciò che accade, che ci raggiunge, ci tocca, e per ciò stesso ci spiazza, ci provoca, ci chiama in causa.
Il punto essenziale è dunque quello di non ridurre questo fenomeno dell’incertezza: il disagio che esso induce è innegabile e inaggirabile: ma proprio in quanto tale esso si mostra come il segno di un enigma più profondo e la traccia di un’inquietudine più radicale, e cioè del fatto che il nostro compimento, la nostra realizzazione piena non è in definitiva realizzabile da noi. E questo certamente a motivo della limitatezza della nostra esistenza individuale – ma non solo per questo; e certamente anche per l’inadeguatezza di tutti quei progetti, scientifici e politici che ci avevano promesso un controllo più sicuro e un senso più pieno della vita e del mondo – ma non solo per questo. In gioco c’è qualcosa di più, e cioè che noi siamo un bisogno insopprimibile di certezza che non riusciamo mai effettivamente a colmare. Anche se il più delle volte copriamo questa impossibilità semplicemente – e comodamente – negando tale bisogno. Che invece torna immancabilmente ad imporsi, anche qualora fossimo garantiti nei nostri diritti e assicurati nelle nostre aspettative da parte di leggi e strutture superiori. Bisogna dunque accorgersi di questo fattore e cercare di riconoscerne il richiamo.
2. La lotta impari con la fortuna: alla ricerca della certezza perduta. Qui si riapre tutta la grande pretesa che ha sempre impegnato il pensiero filosofico, soprattutto nell’eta moderna: essere all’altezza di riconoscere, spiegare e risolvere il dramma della certezza. Più ancora dell’incertezza, infatti, è la certezza ad essere una possibilità drammatica per gli esseri umani, poiché essa sempre implica un’alternativa di fondo: o seguire l’ipotesi che vi sia un significato certo di sé e del mondo, da accogliere e verificare, oppure al contrario ritenere che esso sia solo una produzione, più o meno riuscita, della nostra mente.
Oggi questa partita filosofica si gioca soprattutto in quella che possiamo chiamare la più diffusa ideologia del nostro tempo, vale a dire il “naturalismo”. Esso si fonda sull’idea che tutto quanto nell’esperienza umana possa essere spiegato in base a determinati fattori e meccanismi fisico-chimici e neuronali, riducendo così tutto il nostro bisogno di certezza ad una raffinata strategia evolutiva con cui gli uomini si premuniscono per la sopravvivenza, e cioè per contrastare quella che resta pur sempre la grande legge della natura, vale a dire il ciclo ininterrotto della nascita e della morte. Ma nel naturalismo contemporaneo è presente anche un’altra idea, un’idea antica, quasi arcaica, che viene rivitalizzata paradossalmente attraverso i più raffinati avanzamenti delle scienze biologiche e delle neuroscienze, e cioè che il vero destino degli uomini, il significato ultimo della loro esistenza, consista nella loro appartenenza all’impersonale, necessario meccanismo della natura.
Il razionalismo filosofico moderno, almeno a partire dal XVII secolo con Spinoza, ha cercato di spiegare la radice del timore provocato in noi dall’incertezza della nostra condizione finita, sostenendo che esso è solo il frutto dell’ignoranza e del dannoso influsso della tradizione ebraico-cristiana, secondo la quale il finito ha nell’infinito la sua origine e il suo destino. Ma se l’incertezza è frutto dell’ignoranza, la soluzione razionalista consiste nel superarla attraverso una purificazione del nostro intelletto e una liberazione dalle nostre passioni, in modo da accettare in maniera sempre più convinta il nostro destino naturale. Per non essere più divorati dal cancro dell’incertezza è necessario abbandonare una volta per tutte l’idea che l’essere umano e il mondo intero possano avere un’origine e uno scopo più grandi di sé. E quindi, in qualche modo si tratta di ribaltare il senso cristiano della libertà e della storia. Si delinea così un programma che porterà i suoi frutti estremi in un pensatore emblematico come Friedrich Nietzsche, il quale così scrive nel Crepuscolo degli idoli (1888):
«nessuno dà all’uomo – né Dio, né la società, né i suoi genitori, né lui stesso – le sue proprie caratteristiche […]. Nessuno è responsabile della sua esistenza, del suo essere costituito in questo o in quel modo, di trovarsi in quella situazione e in quell’ambiente. La fatalità della sua natura non può essere districata dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà. Egli non è la conseguenza di un personale proposito, di una volontà, di uno scopo […]. Siamo stati noi a inventare il concetto di “scopo”: nella realtà lo scopo è assente… Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto […] Ma fuori del tutto non c’è nulla! – […] tutto ciò soltanto è la grande liberazione – con ciò soltanto è nuovamente ristabilita l’innocenza del divenire».
Questa risposta non può essere liquidata a buon mercato: essa ci inquieta sempre, e per molti costituisce la più radicale alternativa rispetto alla tradizione cristiana (e anche a tutte le filosofie che, in un modo o nell’altro, sono derivate da quella tradizione, come è per esempio lo stesso illuminismo). Ma se la si esamina con attenzione, si vede chiaramente che questa rinuncia alle categorie metafisiche dell’Occidente cristiano (che ci sia un fine nella natura e negli esseri umani, che l’essere finito abbia una relazione costitutiva con l’infinito, che la libertà umana nasca e si eserciti solo a partire dal riconoscimento di altro da sé) viene pagata ad un prezzo altissimo: la decisa svalutazione dell’io come soggetto irriducibile, ossia come punto di “rottura” o “discontinuità” rispetto alla ferrea necessità dell’ordine naturale. In questa prospettiva, infatti, la stessa volontà libera dell’uomo si compirà nell’accettazione della fatalità, come se il tempo e la storia non potessero riservarci più alcuna novità, ma solo un’eterna ripetizione. Ascoltiamo ancora quello che scrive Nietzsche ne La gaia scienza (1882):
«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo chiaro di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Ma potrebbe anche darsi che tu abbia vissuto per una volta sola un attimo immenso, per cui avresti risposto così: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina!”. […] quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima, eterna sanzione, questo suggello?».
Ecco il punto infuocato di tutta la questione: amare se stessi per Nietzsche significa non desiderare altro che la necessità di se stessi, e ritenere che i propri desideri non abbiano mai un termine più grande del meccanismo dei nostri bisogni naturali. Ma, alla fine, chi potrà mai raggiungere questa posizione? Solo il saggio, solo colui che sarà capace di “costruire” se stesso, così come avveniva nelle tecniche ascetiche dei filosofi pagani. Lo ha notato con chiarezza Salvatore Natoli, a proposito del neo-paganesimo che attraversa la nostra epoca: «per essere all’altezza di quel che il tempo richiede è necessario ripiegarci su noi stessi, raccogliere tutta la nostra potenza e trasformarci in punti di resistenza. […] D’altra parte è noto che si è tanto più se stessi quanto meno si dipende. E solo se non si dipende ci si dona liberamente»(4).
L’ideale sarebbe dunque quello del ritorno dell’areté, della pratica delle antiche virtù, il più nobile tentativo di prendere in mano il proprio destino, non nel senso della hybris, cioè di un’affermazione tracotante di sé, ma nel senso del «prendere su di sé il proprio peso». E la suprema virtù in quest’opera di auto-formazione consiste proprio nella moderazione, nell’auto-regolamentazione e nel governo di sé, in quello che i greci chiamavano “autarchia”. In tale prospettiva l’uomo virtuoso è colui che è capace di «amministrare la propria potenza» nella misura in cui sa misurare il proprio desiderio, senza rinunciare ad esso, certo, ma senza mai cedervi: infatti «il desiderio è potenza che illude perché ci fa dimenticare che siamo una quantità finita di forza»(5).
Quello che avveniva nelle pratiche morali degli Stoici e degli Epicurei, il cui scopo era di creare la propria natura e di forgiare la propria misura di uomini, sembra trovare una singolare assonanza in alcune tendenze di punta dell’odierna antropologia culturale (penso ad esempio a un autore come Francesco Remotti), che sottolineano con forza come l’essere umano sia il prodotto di un continuo processo di «antropo-poiesi», cioè di costruzione della propria identità. La stessa “natura umana”, secondo questa prospettiva, non è nulla di dato, ma va assunta senz’altro come un’illusione o una «finzione di umanità», nel senso che essa viene di volta in volta elaborata come una fiction culturale, che dipende esclusivamente dal grado di adattamento all’ambiente naturale e al contesto sociale(6). Da questo punto di vista viene a cadere, come illegittima, la stessa certezza di una base oggettiva della soggettività umana, ossia la presenza condivisa di alcuni fattori caratteristici di essa, giacché la natura umana, intesa come struttura, non dice molto di più che la mera appartenenza alla specie, mentre il problema del senso dell’esistere è ridotto a un’opzione meramente “soggettiva”. Se dunque la natura umana non è più qualcosa di oggettivamente dato, essa sarà qualcosa da guadagnare e da raggiungere attraverso lo sviluppo di tutta una serie di diritti (ma anche di divieti) che un’epoca, una cultura e una società stabiliscono di volta in volta come determinanti per i soggetti individuali. L’altro lato della necessità naturale è così il relativismo culturale.
Ma c’è sempre un punto che rimane aperto, direi drammaticamente irrisolto. E sebbene si tenti ogni volta di chiuderlo, esso si riapre di continuo. Alla fine, infatti, sia accettando come insuperabile l’ordine necessario delle cause naturali, sia cercando di resistervi attraverso un’auto-formazione interiore, sia semplicemente accogliendo come inevitabile la finzione e l’illusione come la vera sostanza della nostra natura, il sentimento dominante non potrà essere che quello di un’ultima insensatezza del nostro io. Questo non vuol dire che non abbiamo più scopi o soddisfazioni, o che manchiamo di progetti e di traguardi significativi nella vita personale e sociale, ma piuttosto che di fronte alla necessità del tutto – unica ragione certa dell’essere – noi siamo sempre per così dire un caso irrazionale, fortuito di esistenza. Così la certezza si suddivide, da un lato, nell’assumere come unico senso dell’esistere il fatto che siamo costretti ad esserlo, secondo la legge dalla natura; dall’altro lato, nell’approntare un’auto-assicurazione – attraverso tutta una serie di diritti e garanzie – che ci permetta di resistere al caso, cioè al nulla e alla morte.
Si dirà che in fondo questo è il nostro “destino”, la nostra natura. Ma se è così – ci chiediamo – perché questa natura non basta a se stessa? Perché l’accidentalità e la casualità della nostra esistenza sulla grande scena del mondo continua a crearci disagio e patimento? Perché tutte le spiegazioni che se ne possono dare non ci appagano?
3. All’origine, la certezza dell’esistenza. L’incertezza ci inquieta proprio perché essa ci provoca a scoprire che, all’inizio, noi siamo indelebilmente segnati da una certezza – ecco il colpo di scena che il nostro stesso essere ci riserva: è solo perché in qualche modo noi la conosciamo già, questa certezza, che possiamo patirne la mancanza. Non si tratta di un’assicurazione o di una garanzia che abbiamo in anticipo sulla vita, ma dell’esperienza originale che tutti ci ha segnati: quella di essere voluti e accolti dallo sguardo amoroso di nostra madre e di aver percepito il senso, magari non ancora cosciente ma certamente presente, del nostro esistere naturale suggendo il suo seno. La certezza che precede ogni incertezza e che a sua volta ogni incertezza clamorosamente attesta, è il fatto che noi siamo venuti all’essere in un rapporto, siamo di qualcuno, e in quanto tali siamo davvero noi stessi. È in questa memoria che si apre lo spazio di senso del nostro bisogno di certezza.
Quando affermo che dobbiamo andare al fondo dell’incertezza non sto certo dicendo – si badi – che dobbiamo essere contenti di una condizione di precarietà e confusione; al contrario, sto ipotizzando che tutta la nostra debolezza non sarebbe neanche sperimentabile se, dal fondo di essa, non si ridestasse quello che vale come un imprinting del nostro io, vale a dire la certezza di un significato che ci viene da altro da noi e da prima di noi. La certezza non è qualcosa che innanzitutto costruiamo, ma è qualcosa che innanzitutto riceviamo. È qualcosa che ci genera, e che solo in quanto tale può diventare nostra. Né si può dire che questa esperienza non sia originale per tutti: basta osservare, come prova al contrario, quanti problemi derivino in fondo proprio dalla sua mancanza.
Viene in mente quello che diceva Agostino d’Ippona parlando del desiderio più condiviso tra tutti gli uomini, vale a dire quello della vita beata, della felicità: un desiderio che sarebbe del tutto incomprensibile, se gli uomini non sapessero già cosa fosse la felicità o non ne avessero in qualche modo già fatto esperienza – anche se in maniera embrionale e incompleta – in modo da poterla ricordare, desiderare e sperare. Solo perché abbiamo sperimentato la gioia (gaudium), solo perché ci siamo già rallegrati di qualcosa che riempiva il nostro animo, possiamo addirittura essere tristi per la sua mancanza. E per Agostino non si tratta di un godimento qualsiasi, di una soddisfazione a buon mercato, ma di un godimento vero, o meglio di un godimento del vero (gaudium de veritate), ossia di una realtà certa perché infinita, più grande di sé(7).
Ma viene in mente anche il percorso fatto da Cartesio, il quale era partito da una condizione di dubbio universale su tutto quello che c’è al mondo ed era arrivato a scoprire come unica certezza l’esistenza del nostro io come puro pensiero, sostanza pensante intesa in maniera solipsistica, cioè separata da tutto ciò che è altro dal pensiero, compreso il nostro stesso corpo. E poi però, proprio riflettendo sulle idee che questo io solitario può pensare, Cartesio si rende conto che ve ne è una – l’idea dell’infinito o di Dio – che il nostro io pensante trova in se stesso, pur essendo incapace di produrla da sé, essendo egli una sostanza finita. Così, proprio colui che è passato alla storia come l’inventore del soggetto moderno può scrivere: «da ciò segue necessariamente che io non sono solo al mondo»(8), e che quindi «in me la percezione dell’infinito viene prima in qualche modo di quella del finito, ossia la percezione di Dio prima di quella di me stesso. In qual maniera infatti sarei consapevole di dubitare, di desiderare, cioè di esser mancante di qualcosa, e di non essere del tutto perfetto, se non ci fosse in me l’idea di un ente più perfetto, paragonandomi con il quale riconoscessi le mie mancanze?»(9).
Questa esperienza originaria della certezza, intesa come un rapporto costitutivo dell’io, non si manifesta soltanto in alcuni casi particolari, per quanto importanti (come nella memoria agostiniana della felicità o nella percezione cartesiana dell’infinito), ma rappresenta la struttura permanente di ogni nostro gesto cognitivo e affettivo. La certezza è il riconoscimento soggettivo, ossia l’assenso che noi diamo ad una verità – a un fatto, a un sentimento, a un’idea, a un incontro – che si presenta come un fenomeno oggettivo: e oggettivo non semplicemente perché accade fuori di noi, ma perché più precisamente si manifesta come “altro” da noi. E può essere “altra” anche un’intuizione che emerga improvvisa nel nostro spirito o una convinzione che abbiamo a lungo elaborato nel nostro intelletto, non meno di un’impressione empirica o di una percezione sensibile.
Non sto dicendo che tutte le volte che noi avvertiamo una tale certezza si tratti effettivamente di una verità “oggettiva”, poiché potrebbe anche darsi che si tratti solo di una credenza psicologica che prima o poi si riveli non meritevole del nostro assenso (e quante volte abbiamo constatato amaramente di esserci sbagliati o illusi?); dico solo che quella della certezza è una condizione caratteristica, ossia una posizione inevitabile del nostro essere individui coscienti, consapevoli di sé e del mondo. L’esser-certo può essere addirittura individuato come la postura fondamentale del nostro “io”. E come ce ne accorgiamo? Ogni qual volta noi, incalzati dall’urgenza delle cose o dall’appello delle circostanze, chiediamo il “perché”, noi attestiamo a noi stessi di essere fatti per una risposta, cioè di essere un desiderio di verità e un bisogno di certezza.
Questo nesso strettissimo tra la ricerca e la certezza trova una conferma illuminante in un libro recente del filosofo Diego Marconi, in cui viene commentata una celebre frase di Gotthold Ephraim Lessing, il padre nobile dell’Illuminismo tedesco del XVIII secolo. Scriveva Lessing: «Ciò che determina il valore del singolo uomo non è la verità di cui egli è in possesso o di cui si crede in possesso, ma il sincero sforzo per giungervi. Infatti, le sue forze conseguono un miglioramento non in virtù del possesso della verità, ma in virtù della sua ricerca, e soltanto in questo consiste il sempre crescente perfezionamento umano. Il possesso rende quieti, pigri e presuntuosi»(10). Così, se Dio avesse nella mano destra tutta la verità e nella sinistra l’eterno impulso a ricercare la verità, e ci chiedesse di scegliere una delle due, Lessing non avrebbe dubbi: la pura verità è riservata tutta a Dio e va lasciata solo a Lui; la ricerca è tutta e solo dell’uomo, ed è l’unica cosa che l’uomo può e deve scegliere. A questo proposito nota argutamente Marconi:
«Mai mi sognerei di negare il valore della ricerca filosofica o religiosa: tuttavia, questa idea di Lessing [cioè che l’importante sia la ricerca per la ricerca e non il trovare n.d.r.] mi è sempre sembrata una nobile sciocchezza. Dalle chiavi di casa alla terapia efficace del carcinoma ovario, si cerca per trovare. Se davvero si pensasse che non c’è nulla da trovare o che è impossibile trovarlo, si smetterebbe di cercare (infatti non si cerca più di quadrare il cerchio o di realizzare il moto perpetuo). La nobilitazione della ricerca rispetto al suo eventuale risultato è una razionalizzazione di quella che si considera l’estrema povertà dei risultati conseguiti […]: un tentativo di salvare il salvabile, pregiando il viaggio più della meta, a cui non si riesce ad arrivare e che forse non esiste. Ma è una razionalizzazione controproducente, perché fa di un’impresa forse vana un’impresa sicuramente sciocca»(11).
Ribaltando l’equazione di Lessing, potremmo dire che se una ricerca fosse solo fine a se stessa, con il tempo non si ridesterebbe più, né ci renderebbe insonni, ma piuttosto languirebbe e finirebbe per inaridirsi: non è il ritrovamento del vero, ma è piuttosto la rinuncia ad esso il segno della pigrizia della ragione. Sta di fatto che con Lessing si è già consumato il divorzio tra la ricerca del vero e il possesso del vero, così che da un lato ricercare significa non dover mai giungere a una risposta, e dall’altro possedere significa non dover cercare più. Se noi facciamo invece attenzione a come la certezza si forma nella nostra esperienza, possiamo vedere che essa costituisce l’ipotesi che guida ogni ricerca e quindi non si identifica mai solo con la conclusione di un percorso, ma piuttosto con l’intera dinamica del rapporto tra il nostro io e l’essere, tra la nostra intelligenza e il darsi del mondo.
Il problema non riguarda soltanto la validità delle nostre conoscenze razionali considerate in se stesse, poiché esso porta a galla dimensioni e opzioni fondamentali della nostra intera esperienza personale. Per questo rilancio la posta e mi chiedo: quando diveniamo certi di qualcosa?
4. La certezza come il rischio dell’assenso: ragione e volontà. Se la certezza implica sempre un assenso, allora essa consiste in un atto dell’intelletto determinato dalla volontà. Da questo punto di vista essa richiede per così dire un’adesione al vero – potremmo dire una “fede” o “fiducia”, in senso assolutamente non fideistico o sentimentale, ma pienamente conoscitivo e razionale –, proprio perché la certezza non è mai un procedimento meccanico, ma implica la nostra libertà. Alcuni filosofi, penso ad esempio a Edmund Hussserl, hanno chiamato questo atto primario della nostra intelligenza addirittura una «fede originaria» (Urglaube o Urdoxa). Ne troviamo un’affascinante descrizione in questo brano di Hans Urs von Balthasar:
«Hanno ragione […] quei filosofi i quali, all’alunno che si trova incerto e smarrito davanti al problema della verità, danno il consiglio di gettarsi innanzi tutto nella corrente, per fare esperienza, corpo a corpo con l’onda, di che cosa sia l’acqua e come vi si avanzi. Chi non arrischia questo salto non sperimenterà mai che cosa sia nuotare; e così pure, chi non osa il salto nella verità non raggiungerà mai la certezza dell’esistenza di essa. Questo primo atto di fede, della fiducia che si butta, non è affatto irrazionale, bensì è la semplice premessa ad accertarsi in via di principio dell’esistenza del razionale»(12).
Ma questo rischio originario è anche l’inizio di una disponibilità che non può interrompersi mai, proprio perché la certezza non è mai acquisita una volta per tutte. Continua von Balthasar:
«Come il nuotatore deve nuotare sempre per non affondare, nonostante sia divenuto sempre più abile nella disciplina del nuoto, […] così in definitiva anche colui che conosce deve porsi ogni giorno, in maniera nuova, la domanda sull’essenza della verità, senza essere per questo uno scettico sterile e distruttivo»(13).
È quello che Tommaso d’Aquino chiamava «il cogitare», vale a dire quel cammino di ricerca e di discussione che la nostra intelligenza si trova a percorrere per poter raggiungere infine la «certezza dell’evidenza» (certitudo visionis)(14). Sia quando percepiamo dei dati sensibili particolari, sia quando cogliamo dei concetti universali, quello che si richiede per arrivare alla certezza è un «atto di decisione dell’intelletto» (actus intellectus deliberantis), chiamato a verificare le ragioni per cui aderire al vero che ci si presenta.
La conferma più clamorosa di questo procedimento la si può vedere nel caso di quella certezza peculiare che è la fede. Non parlo qui solo dell’originario atto di fiducia di cui si è appena detto, e grazie al quale ci arrischiamo nella conoscenza della realtà, ma di quell’atto razionale con il quale riconosciamo con certezza un “dato” reale in base a indizi, segni o testimonianze indirette, ma senza poterlo dedurre solo logicamente o misurare solo empiricamente. Ora, per Tommaso la fede non è ancora raggiunta mediante il semplice atto dell’intelletto che ha per oggetto il vero e il falso, ma richiede un’adesione dell’io, o come egli dice, un «cogitare approvando» (cogitare cum assensu), intendendo per “assenso” o “approvazione” «un atto dell’intelletto in quanto determinato a una data cosa dalla volontà»(15).
Questo vuol dire che per noi uomini la certezza non è mai una conclusione obbligata o meccanica, dovuta alla dimostrazione necessaria di qualcosa nella sua inoppugnabile verità, né è mai un acquisto fatto una volta per tutte, ma è piuttosto una strada in cui la verità è sempre in attesa dell’approvazione di un “io” conoscente, e in quest’io è sempre richiesta l’azione aperta, rischiosa, mai già pre-costituita della volontà libera. Alla natura della certezza appartiene dunque il fattore-tempo, condizione dell’esercizio della libertà. Al di fuori della strada del tempo non vi sono scorciatoie, tranne quella del dogmatismo e dello scetticismo; e il non affrontare questo percorso non rende affatto più facile, bensì molto più difficile, se non addirittura impossibile, accedere alla verità.
È stato soprattutto John Henry Newman a mettere a fuoco lo stupefacente fenomeno dell’assenso, quale condizione permanente della certezza umana. Tutti gli oggetti che noi conosciamo, siano essi cose concrete (cioè apprese per esperienza diretta e per immagini), siano essi nozioni interne alla nostra mente (che inferiamo per via indiretta da altre cose), richiedono un atto di assenso del nostro spirito. Ora, a noi sembrerebbe quasi ovvio dire che il nostro assenso sarà tanto più certo, quanto più i nostri ragionamenti sono sviluppati attraverso una dimostrazione logica, ossia attraverso una concatenazione necessaria di nozioni (come accade per esempio in una legge fisico-matematica). E viceversa, quanto meno i nostri ragionamenti dipendessero da una deduzione logica (come ad esempio accade nei rapporti tra gli esseri umani), tanto meno certo dovrebbe essere il nostro assenso. Newman ribalta invece la questione, permettendoci di scoprire una dinamica sorprendente, che peraltro è sempre all’opera nella nostra conoscenza quotidiana: è proprio quando i nostri ragionamenti seguono la via della probabilità, cioè quando essi non si sviluppano attraverso una piena dimostrazione razionale di verità, bensì, più modestamente, attraverso illazioni da segni non del tutto espliciti, ma bisognosi di attenzione e di interpretazione da parte nostra, ebbene proprio allora l’assenso può essere incondizionato, cioè pieno di ragioni. E questo non in maniera avventata o infondata, ma con piena legittimità: quanto più è aperta l’avventura dell’interpretazione dei segni della realtà, tanto più è urgente, ma anche pienamente possibile, il percorso della certezza.
«L’assenso in base a ragionamenti non dimostrativi [cioè non immediatamente evidenti per sola coerenza logica] è un atto troppo universalmente riconosciuto per essere irrazionale, a meno che non sia irrazionale la natura umana; è troppo familiare alla menti più prudenti e lucide, per essere una debolezza o una stravaganza. Nessuno di noi può pensare o agire senza accettare delle verità, non intuitive, non dimostrate, eppure sovrane. Se mai la nostra natura possiede una costituzione e delle leggi, una di esse consiste nell’accettare assolutamente, come vere, delle proposizioni che si trovano al di fuori del campo ristretto delle conclusioni alle quali è vincolata la logica»(16).
Sono molteplici i casi in cui noi diamo il nostro assenso incondizionato a cose che ci si presentano con delle prove solo probabili e non dimostrate in senso assoluto: tutti per esempio crediamo (believe) indubitabilmente di esistere, di essere nati in una certa data, di essere individui con una identità; così come tutti crediamo senza dubbio che esiste un mondo esterno e che esistono altri io diversi da noi, che ieri è successo un certo avvenimento e così via. Ma molteplici sono anche i casi in cui il fondamento della certezza è dato dalla fiducia che riponiamo in qualcuno. Come quando (l’esempio è di Newman) una madre insegnasse al suo bambino a ripetere un verso di Shakespeare – come «La virtù stessa si volge in vizio, quando è male applicata» – e suo figlio le chiedesse cosa significhi: allora lei potrebbe rispondergli che è ancora troppo giovane per capirlo, ma che quel verso possiede «un bel significato» (a beautiful meaning), che egli in futuro potrà comprendere. Allora il bambino, «confidando» nelle parole della madre (in faith on her word), potrebbe dare il suo assenso alla proposizione espressa nel verso shakespeariano, ossia «non al verso che aveva imparato a memoria e il cui significato sarebbe fuori dalla sua portata, ma al suo essere vero, bello e buono»(17). Questo assenso possiede «una forza e una vivacità» (a force and life) superiore ad altri assensi, perché per il bambino «la sincerità e l’autorevolezza della madre non costituiscono una verità astratta o la materia di una conoscenza generale, ma sono legate all’immagine e all’amore della sua persona, che è parte di lui», tanto che egli «non esiterebbe a dire che darebbe la vita per difendere la sincerità della madre»(18).
Sarebbe dunque scorretto confondere la dinamica del nostro assenso a proposizioni vere (cioè ad affermazioni circa la verità delle cose) con il grado di dimostrabilità logica di esse. Non che la prova logica non sia importante, s’intende, ma se la si assume come unico criterio del nostro assenso, sarebbe come se (secondo un altro esempio di Newman) per avvertire il fresco che ci viene dall’aria aperta ci limitassimo a leggere i gradi segnati sulla colonnina di mercurio di un termometro, come se fosse il mercurio in sé la causa della vita e della salute: «Se proviamo caldo o freddo, nessuno ci convincerà del contrario insistendo che il termometro segna 15 gradi. È la mente che ragiona e dà l’assenso, non un diagramma su un pezzo di carta»(19).
Questa naturale capacità di assentire della nostra mente, accompagnata dall’ulteriore capacità di riflettere sul proprio assenso, costituisce per Newman il carattere peculiare della certezza umana: essa è, secondo le sue parole, «la percezione di una verità con la percezione che è una verità»(20). Se dunque in ogni atto di conoscenza è richiesto il nostro assenso, il più delle volte in maniera spontanea e non riflessa; nella certezza questo assenso viene percepito esplicitamente, cioè diviene cosciente di sé. È come se (lo dico con parole mie) conoscendo qualcosa di vero io ne percepissi il gusto, il sapore – appunto, il sapere pieno e vissuto –, mi accorgessi del vero che mi raggiunge e di come io sono raggiunto, toccato, cambiato da esso. Questo genere di conoscenza, nella quale sapendo qualcosa noi siamo al tempo stesso consapevoli di saperla – la certezza appunto – non solo è necessaria all’io per conoscere e per agire, ma ha bisogno a sua volta di tutto l’io, cioè della nostra persona nella sua interezza – ragione, sentimento, volontà, libertà – per essere raggiunta.
5. Apertura. Forse adesso siamo in grado di comprendere un poco di più la frase di don Giussani che segna il Meeting di quest’anno: «l’esistenza diventa una immensa certezza»(21): è nel verbo che mi pare si raccolga il punto più interessante di questo fenomeno. La certezza è qualcosa che viene scoperto continuamente, non è un “assoluto”, come la si interpreta superficialmente o ideologicamente, ma è un “accaduto”, e più precisamente qualcosa che continua ad accadere, poiché se non accadesse nel presente non esisterebbe affatto.
E in realtà, come potrebbe l’uomo superare la verifica più esigente della certezza, quella rappresentata dal limite e del male? Non rischierebbe forse anche la nostra certezza più originale – come quella del rapporto con nostra madre o con chi ci vuole veramente bene – di soccombere di fronte al dolore e alla morte? D’altra parte, potremmo mai accontentarci di proiettare la nostra certezza al di là dell’esperienza presente, come un sogno o un’utopia, una sorta di triste consolazione necessaria per vivere? Il dramma della certezza mostra qui tutta la sua radicalità: il suo bisogno è infinito, e non può essere soddisfatto da niente di meno che dall’infinito.
Ci è voluto qualcosa di inatteso e sorprendente per riuscire a sperimentare un’altra possibilità di certezza, rispetto alla necessità del meccanismo naturale o a quella della deduzione logica, ma che non si riducesse nemmeno a una speranza irrealizzabile nel presente. È dovuto venire Cristo, nella carne del mondo, per riaprire il ciclo inesorabile del tempo naturale, ponendosi come principio di conoscenza nuova, l’unico capace di valorizzare fino in fondo il bisogno di significato, e cioè l’attesa di compimento e il desiderio di felicità di ogni singolo uomo. Cristo è quel caso unico nella storia dell’uomo, in cui il significato, il logos, è diventato amico del caso. E da allora in poi ogni “caso” – ogni persona e ogni accadimento – non è stato più solo un caso: e non perché, come in alcune filosofie pagane, tutto è necessario o addirittura tutto è Dio (il panteismo), ma perché Dio è diventato uomo, permettendo all’uomo di essere finalmente se stesso, cioè un essere che domanda, desidera e attende, certo della risposta.
Come ogni studioso del pensiero filosofico non può non riconoscere, è il cristianesimo che ha inaugurato la possibilità della libertà: non la semplice possibilità di scegliere una cosa rispetto ad un’altra, ma la possibilità di scoprire il valore irriducibile, infinito di me in virtù del rapporto diretto con chi mi ha creato e mi sta creando ora. Ed è il cristianesimo che ha inaugurato la storia, il cammino verso il compimento in virtù di un avvenimento che ha dato una nuova direzione al tempo. C’era bisogno di Cristo perché la certezza dell’uomo non fosse pagata al prezzo della sua libertà, né sottratta al dramma della storia, ma al tempo stesso non fosse tenuta sotto scacco dalla finitezza e dalla morte. Grazie alla sua resurrezione nella carne si è compiuta una vera e propria “rivoluzione copernicana” nella possibilità di conoscenza e nella capacità di certezza dell’uomo. Quel fatto si è presentato e continua a presentarsi nella storia come l’avvenimento più pertinente alla ragione umana, perché afferma una presenza misteriosa dell’essere che non è riducibile alla natura, ma grazie alla quale noi possiamo divenir certi che la natura stessa e la vita ci è donata, è “per” noi.
Come ancora osserva don Giussani, è grazie a un «dono dello Spirito» che l’uomo può diventare, appunto, consapevole della «gratuità abissale» del suo essere, scoprendo che la solitudine e l’impotenza sono vinte grazie alla forza di un Altro. Ed è solo perché questa realtà misteriosa ci raggiunge di continuo, e non per una nostra illusione o peggio per una nostra presunzione, che la certezza può diventare “immensa”.
C’è sempre, nella vita di un uomo, un punto in cui questo significato almeno una volta si è reso manifesto, attraverso la testimonianza di uomini certi; ed è quello che la tradizione cristiana ha chiamato con il nome più oggettivo e laico, cioè il meno ideologico o clericale che si possa immaginare: che noi siamo chiamati ad essere in ogni istante, che il nostro io è “vocazione”, che noi siamo strutturalmente in rapporto con quello che ci dà l’esistere e con Chi ci dona il senso dell’esistere; e questo senso non è mai una motivazione astratta ma si gioca sempre in incontri storici, nei “casi” della vita, appunto.
Non si tratta, come si può vedere, di un programma elaborato dai filosofi, ma di un fenomeno che permette un’inaspettata novità per la stessa filosofia, intesa qui come la domanda cosciente della ragione sul senso ultimo di sé e del mondo. Per me personalmente, la verifica più interessante e anche più stringente di questa novità nel mio lavoro filosofico, è stato scoprire che la certezza inaugurata da Cristo è l’unico caso in cui una risposta totale e ultima alla domanda dell’uomo non annulla questa domanda, semplicemente risolvendola, ma anzi la rimette in moto, la alimenta, e addirittura l’esalta come la strada propria dell’umano. Al contrario di quanto si ritiene abitualmente, per pigrizia o per inesperienza, è solo un uomo certo che può essere veramente inquieto e finanche godere della propria inquietudine, come un’attesa che permette alla certezza di riaccadere sempre.
È davvero singolare questa dinamica dell’esperienza svelata dal cristianesimo: proprio perché la certezza non è una nostra costruzione, essa è ciò di cui abbiamo veramente bisogno per tutte le nostre costruzioni, sia a livello personale che sociale. È questo che in fondo fa la differenza nella storia: non solo che la certezza sia più o meno assicurata dal funzionamento delle strutture dello Stato (che comunque resta un fattore di grande importanza: basti pensare alla vertiginosa moltiplicazione di incertezza che in questi giorni sta condizionando la vita economica, lavorativa e politica di moltissimi paesi), ma che siano in gioco degli uomini, i quali, per una certezza vivente su di sé, possano affrontare le tante situazioni di crisi, e guardarle in modo diverso, direi più concreto e più realistico. Ogni crisi infatti può essere guardata come una chance per comprendere tutta l’ampiezza del nostro bisogno, e paradossalmente per riconoscere che c’è un bisogno irriducibile a tutte le nostre strategie di soluzione. Ma, appunto, è grazie a questo bisogno più grande, immenso, che possiamo tentare di dar risposte efficaci ai tanti bisogni della vita e della società. Potremmo descrivere questo percorso come il passaggio dall’assistenzialismo al protagonismo, da un’immagine di certezza come un’assicurazione che garantisca dagli imprevisti della vita a una certezza come il riconoscimento del significato irriducibile e inesauribile di noi stessi, e come affezione, adesione, decisione per esso.
C’è un sintomo che forse più degli altri attesta questo lavoro della certezza, ed è che cambia la percezione del tempo. Il tempo infatti può rappresentare la grande, inevitabile contestazione di ogni sicurezza, per il semplice fatto che destina tutto a passare; ma può essere anche la grande prova, la più radicale verifica della certezza riguardo alla ragione per cui siamo al mondo. E il segreto di questa verifica, il motore del tempo, se così posso esprimermi, è il nostro domandare. Ogni qualvolta un uomo chiede il “perché” di sé, degli eventi, delle cose accade una novità – piccola o grande che sia – nel flusso altrimenti meccanico o caotico degli eventi, e il tempo diventa storia: non solo un passare di accadimenti, ma l’accadere dell’io.
Come ci è stato ricordato nel Messaggio di saluto di Benedetto XVI al Meeting di quest’anno, «L’uomo non può vivere senza una certezza sul proprio destino. “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. […] “Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”»(22). Anche in questo caso Cristo permette all’uomo una possibilità di esistenza altrimenti sconosciuta, cioè quella della speranza nel futuro che nasce dalla certezza presente: «Egli è l’eschaton già presente, colui che fa dell’esistenza stessa un avvenimento positivo, una storia di salvezza nella quale ogni circostanza rivela il suo vero significato in rapporto all’eterno».
Per questo la certezza è riservata a chi non cessa di domandare; ma si può continuare a domandare il perché di se stessi e del mondo, solo domandando a Qualcuno che con la sua presenza desta il mio desiderio di essere, cioè di conoscere e di amare. È quella scoperta di cui una volta ha raccontato Dante, quando dice di aver intravisto negli occhi di Beatrice un nutrimento che non fa mai finire la fame o estinguere la sete, anzi, è tale da ridestarle di continuo:
«Mentre che piena di stupore e lieta
L’anima mia gustava di quel cibo
Che, saziando di sé, di sé asseta»(23).
NOTE
1. Si tratta del “Festival di Filosofia” tenuto a Modena, Carpi e Sassuolo dal 17 al 19 settembre 2010 sul tema “Fortuna”. L’intervento di Z. Bauman era stato parzialmente anticipato sul quotidiano «la Repubblica» del 16 settembre 2010 con il titolo: La società dell’incertezza, trad. di D. Francesconi, pp. 46-47, da cui citiamo.
2. Bauman ha approfondito questa analisi, tra gli altri luoghi, soprattutto in Liquid Fear, Polity Press, Cambridge 2006, trad. it. di M. Cupellaro, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 20084.
3. Cfr. U. Beck, I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, ed. italiana a cura di S. Mezzadra, trad. di L. Burgazzoli, il Mulino, Bologna 2000. Ma si vedano anche: Ch. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, trad. it. di M. Cornalba, Feltrinelli, Milano 1985 (ultima ed. 2010) e M. Benasayag/G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, trad. it. di E. Missana, Feltrinelli, Milano 2004 (ultima ed. 2011).
4. S. Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Mondadori, Milano 2010, p. 136.
5. Ibidem, p. 141.
6. Cfr. F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 207 e 211.
7. Aurelius Augustinus, Confessionum libri tredecim / Le confessioni, testo latino dell’ed. Skutella riveduto da M. Pellegrino, trad. it. e note di C. Carena, Citta Nuova (“Nuova Biblioteca Agostiniana”), Roma 1993, in part. X.20.29-X.23.33.
8. «…hinc necessario sequi, non me solum esse in mundo»: R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, III, ed. Adam-Tannery, vol. VII, p. 42; trad. it. (qui modificata) di I. Agostini, Meditazioni di filosofia prima, in Opere 1637-1649, testo francese e latino a fronte, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2009, p. 737.
9. «…nam contra manifeste intelligo plus realitatis esse in substantia infinita quam in finita, ac proinde priorem quodammodo in me esse perceptionem infiniti quam finiti, hoc est Dei quam mei ipsius. Qua enim ratione intelligerem me dubitare, me cupere, hoc est, aliquid mihi deesse, et me non esse omnino perfectum, si nulla idea entis perfectioris in me esset, ex cujus comparatione defectus meos agnoscerem?»: Descartes, Meditationes de prima philosophia, ed. Adam-Tannery, vol. VII, pp. 45-46; trad. it. cit. (qui modificata), p. 741.
10. «Nicht die Wahrheit, in deren Besitz irgend ein Mensch ist, oder zu sein vermeint, sondern die aufrichtige Mühe, die er angewandt hat, hinter die Wahrheit zu kommen, macht den Wert des Menschen. Denn nicht den Besitz, sondern durch die Nachforschung der Wahrheit erweitern sich seine Kräfte, worin allein seine immer wachsende Vollkommenheit bestehet. Der Besitz macht ruhig, träge, stolz»: G.E. Lessing, Anti-Goetze: Eine Duplik (1778) in: Werke, Bd. 8, Hanser, München 1979, pp. 32-33; trad. it., Una controreplica, in Id., Religione e libertà, a cura di G. Ghia, Morcelliana, Brescia 2000, p. 33.
11. D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007, p. 44.
12. «So behalten denn auch jene Philosophen recht, die dem Adepten, der zögernd und ratlos vor dem Problem der Wahrheit setzt, den Rat erteilen, sich erst in den Strom hineinzustürzen, um Leib an Leib mit der Welle zu erfahren, was Wasser ist und wie man darin vorankommt. Wer diesen Sprung nicht wage, werde nie erfahren, was schwimmen heißt, und so werde auch, wer den Sprung in die Wahrheit nicht wage, niemals die Gewißheit ihrer Existenz erlangen. Dieser erste Akt des Glaubens, des sich hingebenden Vertrauens sei keineswegs irrational, sondern die schlichte Vorbedingung dafür, sich der Existenz des Rationalen überhaupt zu vergewissern». H.U. von Balthasar, Theologik, Bd. 1: Wahrheit der Welt, Johannes Verlag, Einsiedeln 1985, p. 13; trad. it. di G. Sommavilla, Verità del mondo, vol. 1 di Teologica, Jaca Book, Milano 1989, p. 29.
13. «Wie der Schwimmende immer schwimmen muß, um nicht unterzugehen, obwohl er es vielleicht zu immer größerer Meisterschaft in der Schwimmkunst gebracht hat, […] und so muß schließlich auch der Erkennende täglich neu die Frage nach dem Wesen der Wahrheit stellen, ohne deswegen ein unfruchtbarer und zerstörerischer Zweifler zu sein»: von Balthasar, Theologik, Bd. 1: Wahrheit der Welt, cit., p. 14; trad. it. cit. (qui modificata), p. 29.
14. «…dicitur cogitare magis proprie consideratio intellectus quae est cum quadam inquisitione, antequam perveniatur ad perfectionem intellectus per certitudinem visionis» Thomas de Aquino, Summa theologiae, IIª-IIae, q. 2, art. 1, co (trad. it. a cura dei Domenicani italiani, La somma teologica, testo latino dell’ed. leonina a fronte, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1985).
15. «Et ideo assensus hic accipitur pro actu intellectus secundum quod a voluntate determinatur ad unum»: Thomas de Aquino, Summa theologiae, IIª-IIae, q. 2, art. 1, ad 3.
16. «Assent on reasoning not demonstrative is too widely recognized an act to be irrational, unless man’s nature is irrational, too familiar to the prudent and clear-minded to be an infirmity or an extravagance. None of us can think or act without the acceptance of truths, not intuitive, not demostrated, yet sovereign. If our nature has any constitution, any laws, one of them is this absolute reception of propositions as true, which lie outside the narrow range of conclusions to which logic, formal or virtual, is tethered»: J.H. Newman, An Essay in aid of A Grammar of Assent, ed. by I.T.Ker, Clarendon Press, Oxford 1985, chap. VI, § 1/5, p. 118; trad. it. (qui modificata) di M. Marchetto, Saggio a sostegno di una grammatica dell’assenso, in Id., Scritti filosofici, testo inglese a fronte, Bompiani, Milano 2005, pp. 1143-1145.
17. «…and he, in faith on her word, might give his assent to such a proposition, – not, that is, to the line itself which he had got by heart, and which would be beyond him, but to its being true, beautiful, and good»: Newman, An Essay in aid of A Grammar of Assent, cit., pp. 17-18; trad. it. cit., p. 877.
18. «Her veracity and authority is to him no abstract truth or item of general knowledge, but is bound up with that image and love of her person which is part of himself […]. Accordingly, […] he would not hesitate to say […] that he would lay down his life in defence of his mother’s veracity»: Newman, An Essay in aid of A Grammar of Assent, cit., p. 18; trad. it. cit., p. 879.
19. «If we feel hot or chilly, no one will convince us to the contrary by insisting that the glass is at 60°. It is the mind that reasons and assents, not a diagram on paper»: Newman, An Essay in aid of A Grammar of Assent, cit., p. 119; trad. it. cit. (qui modificata), pp. 1145-1147.
20. «Certitude […] is the perception of a truth with the perception that it is a truth»: Newman, An Essay in aid of A Grammar of Assent, cit., chap. VI, § 2/3, p. 129; trad. it. cit., p. 1175 (corsivo nostro).
21. L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 109.
22. Cfr. Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, nn. 2 e 7.
23. Purgatorio, XXXI, vv. 127-129.