Lei che rapporto ha con la certezza? «Non lo dico con una formula, che suonerebbe assai incerta. La mia dimensione interiore è piuttosto quella dell’incertezza. Ma avverto il bisogno di cercare la certezza, e capisco chi dice che è una ricerca senza posa. So di non arrivarci, ma per questo non smetto di cercare».



Fausto Bertinotti, sindacalista, leader storico di Rifondazione comunista, ex presidente della Camera dei deputati, si è fatto mandare la relazione che ieri, nei padiglioni della fiera di Rimini, il filosofo Costantino Esposito ha tenuto sul titolo del Meeting, “E l’esistenza diventa una immensa certezza”. «Preferisco limitarmi ad un ossimoro, quello delle certezze relative. In esse mi sento molto più a mio agio – dice Bertinotti – anche se comprendo la portata, pur senza accettarla, di una certezza che diviene “immensa” come quella di Cl».



Presidente, l’incertezza è la condizione più diffusa del nostro tempo. Tanto che tutta la cultura moderna si è proposta di sfidare quel «precariato dell’esistenza» che condiziona così profondamente le nostre vite.

La relazione di Esposito comincia con uno scacco della modernità che mi sembra troppo radicale. Mi attengo ad una esperienza più circoscritta. Condivido le affermazioni sull’assolutizzazione della scienza e sul suo tentativo prometeico di risolvere una volta per tutte i destini umani. Ma bisogna andare oltre. Questa ideologia, giustamente denunciata, si poggiava e si poggia, per quel che ne resta, su una cosa ben più sostanziosa, e cioè la ricostruzione del primato del capitale sull’uomo, la mercificazione dei rapporti umani. È questa la base materiale di quella gigantesca riduzione, la «base oggettiva» dell’umanità citata.



L’uomo ha usato il suo potere per chiudere i conti con l’incertezza, ma tutti i tentativi – dice Esposito – non possono nascondere un fatto inoppugnabile, che tutta la modernità sembra confermare: non siamo padroni del nostro destino.

Nella vicenda contemporanea c’è senz’altro questa ricerca di assoluto quasi prometeica dell’uomo per ritirarsi dall’incertezza esistenziale, legata al suo essere creatura finita. Ma, ripeto, la modernità non è solo scacco. Vedo anche una grande speranza: la speranza di poter mettere alle spalle gli orrori degli stermini di massa e delle tragedie di ogni prevaricazione. Molto doppiamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla costruzione delle Nazioni unite, a quello straordinario capolavoro politico istituzionale che è la nostra Costituzione repubblicana…

Cosa c’entra la Costituzione, presidente?

Nel suo articolo 3 c’è una cosa maturamente laica. Non dice che il compito dello stato è il raggiungimento della felicità, ma quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono lo sviluppo della persona umana. Sono elementi di realismo politico e civile, frutto di altrettante certezze civili e politiche di chi ha investito il presente con una grande passione.

Il disagio personale con il quale lei accusa le contraddizioni del capitalismo non è il sintomo di un fatto profondamente umano, e cioè che noi non abbiamo un bisogno di certezza – sulle sorti e sul bene dell’uomo, per esempio – ma siamo questo bisogno?

È un discorso che sfiora gli assoluti e come tale è legittimo, guai a censurarlo. Ma se mi chiede di dialogare su questo, la mia risposta è nel fatto che la politica in cui io credo e che traduce in opera il carattere finito dell’uomo, appartiene all’ambito delle certezze possibili, relative. È questo l’ambito al quale sento di appartenere. Sì, preferisco limitarmi ad un ossimoro, quello delle certezze relative. Comprendo che questa dimensione lasci umanamente insoddisfatti…

Cosa intende dire?

La certezza è sempre tentativo di approssimazione. È questa la «mia» certezza. La certezza che lascia intatto il grande interrogativo sul destino dell’uomo, aperto, come domanda, alle sollecitazioni che il credente, a differenza del non credente, vede manifestarsi al di là dell’orizzonte.

Siamo indelebilmente segnati da una certezza: «è solo perché la conosciamo già, questa certezza, che possiamo patirne la mancanza». 

È la lezione di Agostino. In questa tessitura dell’accettazione dell’incertezza, c’è l’idea della disponibilità della piena certezza solo nella ricongiunzione con Dio, e se posso dire così, solo nel mistero della Croce. Fuori da quella Certezza c’è un’incertezza da accettare come uomini nudi su questa terra. Non è la mia posizione: io opto per l’impegno nel tempo e nello spazio che mi tocca di vivere, indotto e stimolato da queste grandi sollecitazioni che non possono essere negate, se non perdendo troppo. Ma ad esse non sono in grado di dare una risposta.

Esposito dice che il nostro assenso alla verità – la certezza – non è mai un procedimento meccanico, implica sempre la nostra libertà. La certezza «accade» continuamente, proprio come accadono i fatti che chiedono l’assenso della nostra libertà.

Questo è un approccio «processuale» che mi trova molto d’accordo. La certezza, come la verità, sono campi di ricerca che non possono essere espunti in nome o di un pragmatismo ottuso o di un certezza precostituita, dogmatica. La definizione del processo è un buon approccio metodologico, perché da un lato ricomprende la ricerca della verità, e dall’altro gli assegna un processo dialogico di incontro e di scontro in cui non è dato di sapere in partenza se potrai mai arrivare.

Alla fine si dice che il bisogno infinito dell’uomo non può essere colmato da nessuna cosa finita. All’infinito del cuore più rispondere compiutamente solo un Infinito che si rivela e si incarna.

È una formula troppo assolutizzante, che rispetto, ma che non fa per me. Vi vedo un pericolo: un elemento che nega qualsiasi autonomia a questa nostra vicenda umana storica.

Ma le interessa la verità?

Avverto il bisogno di cercare la certezza, e capisco chi dice che è una ricerca senza posa. So di non arrivarci, ma per questo non smetto di cercare.

(Federico Ferraù)

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