«Non aspettatevi un miracolo, piuttosto un cammino». Questa frase di don Giussani ormai nota al ciellino medio, perché ampiamente citata da don Julián Carrón, ha avuto ieri una conferma paradossale nella Sala Neri della Fiera di Rimini. Chi si mette seriamente in cammino può assistere a un miracolo a ogni svolta della strada. Se il miracolo è un evento straordinario che obbliga a pensare a Dio, ieri, tecnicamente, si può osare di dire che l’evento si è realizzato, anche se non verrà vagliato da nessun tribunale ecclesiastico.
Chi c’era, come chi sta scrivendo queste righe, non è riuscito a prendere appunti perché travolto dall’emozione profonda di fronte a quello che stava succedendo. Le note che seguono sono affidate, dunque, alla pura e vivida memoria delle parole ascoltate, della commozione che ha coinvolto i relatori, della dura battaglia teologica combattuta a suon di citazioni bibliche, degli abbracci visti, dell’irresistibile simpatia di un «testardo ebreo» (autodefinizione), della sua profondità esegetica, dell’apertura mentale di un giovane teologo spagnolo altrettanto simpatico ma meno istrione, della stupefatta osservazione di quello che succedeva da parte del moderatore.
Il titolo dell’incontro era impegnativo e respingente, questioni per addetti ai lavori. Impressione errata solo a metà, di un vero lavoro si è trattato, ma non era per pochi eletti, anche se si è discusso del popolo eletto. Il titolo recitava: “Nomos e profezia· essere ebreo, essere cristiano. Due lezioni su Deuteronomio 13 e 18”, protagonisti il professor Joseph H. H. Weiler, ebreo, e il suo collega cattolico Ignacio Carbajosa Pérez (Nacho), tra i due contendenti don Stefano Alberto (don Pino). Un affermato giurista newyorchese, una grande promessa dell’esegesi vetero-testamentaria, un figlio prediletto di don Giussani con studi giuridici nella patria dell’azionismo italiano (Torino) e teologici nella Germania post-conciliare. Tre lame di acciaio puro.
Non sono mancate le stoccate, il duello è stato vero, il dibattito serrato, non si è trattato di «umanitarismo con tentazioni apparentemente pacificatorie», come avvertito da don Pino nella sua introduzione, ma dell’emergere di due esperienze di fede inconciliabili tra loro eppure unite, misteriosamente e visibilmente unite.
I settecentocinquanta occupanti la Sala Neri hanno partecipato a un vero incontro ecumenico. Un incontro ecumenico, se non è una rappresentazione diplomatica, permette a ognuno di incontrare l’altro essendo fino in fondo se stesso, non si fanno cortesie per gli ospiti, si ama la differenza, e la si fa emergere per conoscerla, e abbracciarla.
La prima schermaglia è stata sulla sala. Don Pino ha fatto notare il diverso assetto (tavolo degli oratori, schermo gigante, ampiezza della sala) rispetto agli incontri degli anni precedenti con il professor Weiler, che avevano, anche logisticamente una forma più seminariale; ne ha spiegato il motivo: «Ci sta più gente». «Non è detto che sia sempre un bene», gli ha obiettato ironicamente e con una strizzata d’occhio il professor Weiler. Una battuta, ma nella quale c’era già tutta la speculazione teologica sull’elezione di un «piccolo popolo», che in seguito Weiler ha sviluppato.
Carbajosa ha iniziato il suo percorso da un passo di Deuteronomio 18 con due ammonimenti divini a Israele per indicare i punti in comune con la religiosità naturale, ma anche la radicale differenza da essa della devozione del popolo di Javhé. «Come si può chiedere a un popolo di non tentare di entrare nel mistero con auguri e indovini». Come gli si può chiedere di rinunciare alla dinamica umana e razionale che è stata anche storica?
La risposta è un altro passaggio di Deuteronomio: «Il Signore Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli un profeta pari a me; a lui darete ascolto». Di qui in poi, in modo affascinante («e commovente» ha commentato Weiler) Carbajosa ha parlato di questo «profeta» pari a Mosè, cui dare ascolto e obbedire, della coscienza del popolo di Israele che nella sua storia millenaria «non è più sorto un profeta come Mosè», della sua natura di sposo che «mi baci con i baci della sua bocca», della speranza che questo profeta fosse il Battista, e dell’annuncio di una voce «carica di tenerezza verso la millenaria attesa dell’umanità» di cui Israele è ancora oggi e testimone, una voce che dalla nube diceva: «Questi è il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». Per come ha pronunciato «ascoltatelo», il teologo spagnolo poteva non ricordare il «gli darete ascolto» del Deuteronomio. L’ha fatto per confortare chi aveva già capito. E per testimoniare come in quell’ascolto sia la fedeltà al Dio dell’alleanza.
A questo punto la domanda di don Pino è stato tremenda: «C’è un problema, di cui ci parlerà il professor Weiler, il mistero di come il non riconoscimento di Cristo sia anch’esso obbedienza e fedeltà a Dio».
«Noi ebrei siamo testardi – ha esordito Weiler – non voglio convincervi del fatto che abbiamo ragione, ma darvi ragioni che vi spieghino la nostra testardaggine». E in un serrato quanto divertente e divertito excursus ha spiegato i motivi del legalismo morale e rituale ebraico, di quanto gli piacerebbe poterlo trasgredire («Spero sempre in un rotolo di Qumran che dica che possiamo mangiare tutte quelle prelibatezze che ci sono vietate»). Ha spiegato la vocazione di testimonianza del popolo di Israele con un esempio che non poteva non catturare l’uditorio: «È come i Memores Domini, un segno e un richiamo per tutti, ma non tutti possono diventare Memores, non ci sarebbe più il mondo».
Ha testimoniato il suo dovere di obbedienza al Dio dell’alleanza («per noi è l’unica, lo sapete, no?») anche in quei rituali che non sembrano avere fondamento razionale se non la volontà di Dio («ma mi obbligano, come per voi l’Eucaristia e la presenza reale di Cristo su cui insiste don Giussani, a ricordarmi di Dio quando mi vesto, quando mangio, quando vado in bagno, e vi risparmio i particolari). Ha spiegato come il patto tra Dio e il suo popolo sia «immutabile e per sempre, almeno mille generazioni, a voler fare i calcoli siamo solo alla duecentesima».
Ha citato un altro passo del Deuteronomio col quale Dio si vincola al suo patto mettendo in guardia Israele da un profeta che pur venisse da Lui con i segni che lo contraddistinguono, «sia messo a morte». E ha concluso con una frase che poteva gelare chi lo ascoltava e che invece è stata accolta nella sua drammaticità e misteriosità per la verità con la quale è stata pronunciata: «Per me un ebreo che si converte non fa una bella cosa».
C’è un piano misterioso di Dio, di cui parla spesso Benedetto XVI, per cui Israele ha una sua funzione nell’economia della salvezza fino alla fine dei tempi, anche dopo l’incarnazione. Don Pino, con un accenno di rottura nella voce, ha parlato di «un dialogo fra fratelli diversi, ma non distanti: abbiamo un solo Padre. Ci sarà un tempo in cui vedremo tutto, in cui tutto sarà chiaro, oggi di quel giorno abbiamo gustato un anticipo».
Poi, a sorpresa, la festa per il sessantesimo compleanno del professor Weiler e il suo abbraccio «al popolo del don Giuss», «mi avete dato tanto sul piano spirituale, umano, sociale…», seguito da un abbraccio forte, intenso, tenero, virile con Wael Farouq, il musulmano egiziano che ha tradotto Il senso religioso, e il miracolo nel miracolo: «Una delle cose più grandi che mi avete dato è stato Wael».
Tutti lo chiamano ormai il Meeting di Cl (o di Rimini), ieri a chi ha assistito a quell’abbraccio ebreo-cristiano-musulmano è tornato in mente il marchio originale: Meeting per l’amicizia tra i popoli.