«Un pizzico di utopia sarebbe forse oggi necessario». In un padiglione delle fiera di Rimini, Massimo Borghesi, filosofo, ha appena terminato la presentazione del suo ultimo saggio sul pensiero del maestro Augusto Del Noce. In questo dialogo con ilsussidiario.net, affronta il tema della crisi. Non quella economica, ma quella che negli ultimi vent’anni ha dissolto tre parole chiave del vocabolario contemporaneo – desiderio, popolo, partiti. È il tema della conferenza che Borghesi tiene domani (oggi, ndr) insieme a Mauro Magatti, sociologo, e Alberto Martinelli, esperto di Scienza politica.



Professore, lei parlerà domani (oggi, ndr) sul tema «Desiderio, popolo, partiti». Queste realtà sono in crisi?

Sono realtà che nel corso degli ultimi trent’anni si sono progressivamente dissolte. Non abbiamo più un mondo che desidera ma un mondo di bisogni, perennemente inappagato e perennemente frustrato. Non abbiamo più un popolo ma una «società liquida», secondo la definizione di Bauman, sempre più divisa tra nord e sud, tra destra e sinistra. E con il venir meno del popolo si sono trasformati anche i partiti, alcuni cancellati dalla scena, altri ridotti a simulacri, con un personale direttamente nominato dal vertice e non più espressione di una pratica democratica.



Come siamo arrivati a questo punto?

Questa triplice evanescenza è non è accaduta d’incanto. È l’esito di un processo che Pierpaolo Pasolini ha diagnosticato in modo eccezionale. I suoi Scritti corsari sono più attuali che mai: prevedevano la svolta antropologica che coinvolgeva ad un tempo la Dc e il Pci, le due forze popolari del paese, prefigurando quel totalitarismo della dissoluzione che si è realizzato nel corso degli anni 80 e 90.

Qui Pasolini si è fermato. Siamo in grado di pensare ad una prospettiva che permette di «salvare» dalla dissoluzione il desiderio, il popolo, i partiti?



Non è semplice rispondere evitando da un lato la retorica dall’altro il pessimismo sconsolato e cinico. Non si può certamente uscire dalla palude con un ritorno all’utopia… anche se un pizzico di utopia sarebbe forse oggi necessaria.

Cosa intende dire?

Intendo con utopia una componente di desiderio di cambiamento, di positività, di progettualità. Quello che serve per guardare al paese nel suo complesso valorizzando le realtà più positive. È chiaro che se ci arrendiamo all’esistente, il risultato è quello che abbiamo di fronte agli occhi.

Non trova che quando c’era ancora il comunismo era come se la politica fosse investita di un afflato ideale di cui oggi non c’è più traccia?

È vero. La sfida del comunismo obbligava la società, la Chiesa, i cattolici in primis ma anche le forze laiche, a dare il meglio di sé, e quindi a mettere in campo quelle energie profonde che dovevano permettere loro di «competere» con il comunismo sul terreno della solidarietà sociale, di una equità che evitasse le disparità troppo nette tra i ceti della società italiana, tra nord e sud. Dopo il 1989 il crollo del comunismo ha visto anche un crollo dell’idealità nella politica. È stata spazzata via dalla società opulenta e globalizzata, che ha vinto il comunismo sul suo stesso terreno, accentuandone la componente materialistica.

È questa una delle analisi più lungimiranti di Augusto Del Noce…

Sì. Del Noce lo aveva intuito già alla fine degli anni 50: la società opulenta è quella che non ha più bisogno della collaborazione delle forze religiose per opporsi al comunismo,  perché batte il comunismo sul terreno puramente materiale dell’aumento del benessere. In questo modo – semplificando – distrugge anche quella parte di «idealità» che c’è nel comunismo.

Cosa significa in concreto quel «pizzico di utopia» che prima ha richiamato?

Lo definirei come il riconoscimento della positività laddove esiste. Ed è esattamente quello che presupporrebbe un ritorno alla vera politica. Esso oggi potrebbe coincidere solo con il riconoscimento di quelle realtà, aggregazioni ed espressioni della società civile, che traducono generosamente in opere un impeto ideale.

Che nesso c’è tra la carica ideale di cui lei denuncia la mancanza e il senso religioso dell’uomo?

Il senso religioso non si esprime solamente nell’interiorità dell’io, ma anche in una socialità rinnovata. Quando questo accade, dà luogo a rapporti sociali che portano il segno del cambiamento. Secondo me il vero problema di oggi non è che tutti sono diventati cinici o egoisti, ma che la politica e i mass media sono diventati sordi alle espressioni di positività che esistono in ambito popolare e sociale. Allora una politica popolare può rinascere soltanto se la politica torna ad essere quello che non è più, cioè rappresentazione. La politica, in un paese democratico, innanzitutto rappresenta.

La politica non deve innanzitutto mediare gli interessi?

No. Il suo primo compito è quello di esprimere al meglio la società. La politica è sempre rappresentazione del popolo, tanto è vero che noi mandiamo in Parlamento – appunto – i rappresentanti del popolo. O il politico rappresenta le urgenze, gli aspetti più profondi e positivi che sono in atto e si muovono nella società, o diventa semplicemente l’esponente di lobbies, di piccoli e meschini interessi di parte che si muovono nel corpo sociale. Come sta accadendo oggi.

Lei vede da qualche parte questa capacità rappresentativa della politica?

Francamente, non la vedo. Ed è un problema che investe forse più la sinistra della destra. È da notare poi che la crisi di rigetto che conosciamo dipende precisamente dal fatto che i partiti sono diventati vuoti simulacri: l’ accusa alla politica di essere una casta non deriva tanto dal fatto che i politici hanno qualche privilegio in più rispetto ad altre corporazioni, ma dal fatto che la gente comune avverte di non essere più rappresentata.

La capacità di rappresentazione della politica ha a che fare con quella parola ormai abusata che è il bene comune?

Certamente, perché la politica è sempre la valorizzazione di un particolare, esteso però all’universalità della collettività e del paese. Nella mediazione di particolare e universale un elemento della società – una esperienza – diviene un modello per tutti, venendo per ciò stesso inserito nel bene collettivo. Quest’opera di mediazione è ora totalmente assente.

La Chiesa, in occasione dei 150 anni dell’unità, non si è stancata di sottolineare l’elemento religioso che sta a fondamento della cultura civile degli italiani. Questa è politica?

Di fronte alle controspinte che tendono in questo momento a demolire l’unità del paese, la Chiesa – radicata nel particolare e al tempo stesso animata da una preoccupazione universale – avverte tutto questo come una minaccia e si fa paladina dell’unità della nazione. Quello che non fa la Chiesa è il passaggio da questa petizione di valore alla sfera della prassi politica, ma semplicemente perché non è il suo compito e non deve farlo.

Intanto il presidente Napolitano ha reso omaggio alla mostra del Meeting sui 150 anni dell’unità d’Italia.

Quella mostra è stata impostata con grande intelligenza, perché fa capire come – al di là della coreografia di rito dei padri della patria e del modo in cui si è realizzata l’unità – le realtà popolari di questo paese che hanno visto la massima espressione da un lato nel mondo cattolico e dall’altro il quello socialista e di sinistra, hanno realmente creato dei tessuti connettivi che hanno superato tutte le aporie e le contraddizioni del processo di unificazione.

Secondo lei che cosa manca oggi all’educazione dei giovani?

Mancano soprattutto esempi. Si dice che sono i giovani sono vittime del relativismo, ma sono relativisti perché sono scettici, e sono scettici perché non hanno modelli veri. Il mondo attuale è squallido sia nell’aspetto mediatico televisivo, che ha proposto in questi anni modelli volgari e irripetibili, sia nel mondo politico che segue quello mediatico. La gente invece torna a sperare quando ci sono espressioni popolari di un cambiamento in atto. Là dove accadono questi micro o macrofenomeni, la gente è profondamente colpita e spera che quegli esempi possano essere anche un modello per la società e per la politica.

Ma questi esempi ci sono?

Ho avuto esperienza diretta di alcuni giovani che sono venuti per la prima volta qui al Meeting, ragazzi che non hanno nulla a che fare con Cl, che sono rimasti affascinati e colpiti da un tipo di umanità inimmaginabile. Vedere imprenditori e professori universitari fare i lavori più umili è stato sperimentare un mondo alla rovescia, mentre sappiamo che a sinistra si fa fatica a trovare i volontari per la festa dell’Unità. Quindi i giovani, più di tanti ragionamenti che non riescono a scalfirli, hanno bisogno di uno spettacolo di umanità così.

(Federico Ferraù)

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