Nei mesi scorsi, tre articoli di Guido Piffer e Tomaso Epidendio hanno posto all’attenzione dei lettori una serie di riflessioni sugli stessi concetti di diritto e di giustizia nell’epoca della globalizzazione e della discesa in campo di fonti giuridiche sovranazionali, nonché sulla funzione e sul ruolo del giudice di fronte alla confusa, caotica e spesso contraddittoria proliferazione sia di nuovi pretesi “diritti fondamentali”, sia di nuove fonti giuridiche internazionali, anche di natura giurisprudenziale (in particolare, Corte di giustizia della Comunità europea e Corte europea dei diritti dell’uomo).



Quanto alla categoria dei diritti fondamentali, la stessa si è andata, nella visione e nel linguaggio dei giuristi, enormemente ampliando fino a far diventare oggetto di diritti fondamentali le più svariate pretese soggettive inaugurando una fase che gli Autori definiscono dei “diritti-desideri”, in cui “si assiste alla rivendicazione come diritto di qualunque pretesa soggettiva, cioè di qualunque desiderio, espressione di una concezione dell’esistenza individualistica. […] e relativistica (non esiste nessun criterio di giudizio esterno al soggetto)”.



Quanto alla seconda, in parallelo con questa proliferazione, sarebbe cambiata pure la psicologia di molti giudici in relazione allo stesso ruolo esercitato e che verrebbe concepito non già e non più come quello di umile e fedele interprete del dato normativo, ma come quello del “tutore dei diritti”, del “garante dei diritti fondamentali, spesso selezionati secondo sistemi di giustizia molto soggettivi”.

E infatti le fonti comunitarie e internazionali e le sentenze delle Corti sovranazionali (che per loro natura sono naturalmente portate a occuparsi di “diritti fondamentali”, in quanto tali dotati di un preteso carattere di “universalità”) hanno determinato “un uso sempre più diffuso di nuovi strumenti interpretativi (ad esempio, l’interpretazione comunitariamente e internazionalmente orientata)” e “nuove modalità argomentative delle decisioni”, che hanno finito per cambiare la forma stessa del “ragionamento giuridico” nel senso che “l’argomentazione del giurista, più che essere incentrata sull’interpretazione delle norme, si è tendenzialmente spostata verso la dimostrazione dell’esistenza di un diritto, che in quanto tale chiede prepotentemente di essere riconosciuto, anche a costo di forzare il dato normativo”.



Ne sarebbe derivata una “argomentazione per diritti”, secondo cui “la disciplina da applicare al caso concreto è giustificata non perché corrisponde alla migliore interpretazione del testo di una disposizione legislativa”, ma “in quanto viene […] meglio tutelato questo o quel ‘diritto’ individuato dal giudice come prevalente”.

In effetti, ritengo che gli Autori ben colgano e descrivano in maniera illuminante il fenomeno davvero inquietante di quello che io chiamerei il “progressivo disfacimento” del diritto inteso quale strumento indispensabile per regolare la civile e pacifica convivenza degli esseri umani. A questo risultato concorrono appunto, in varia misura, da un lato, la proliferazione di quelli che vengono definiti “diritti-desiderio”, dall’altro il sempre più evidente disancoraggio, nell’applicazione da parte del giudice, dal dato normativo.

Sotto il primo profilo, non stupisce o stupisce solo fino a un certo punto la proliferazione dei pretesi “diritti fondamentali” o, come li chiama la nostra Costituzione (art. 2), “inviolabili” (salvo poi paradossalmente essere violati in ogni momento, come oggi si verifica, ad esempio, per la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione che pure, per l’art. 15 Cost., “sono inviolabili”).

Il fatto è che, piaccia o non piaccia, anche i “diritti fondamentali” sono diritti di creazione umana e sono il frutto – tra l’altro, spesso transeunte – di secolari esperienze che, fra alti e bassi, flussi e riflussi, corsi e ricorsi storici, fughe in avanti e precipitose ritirate, hanno tuttavia indotto una grande moltitudine di Stati a farne, nel secolo scorso, solenne proclamazione come nella nota Dichiarazione universale dei diritti umani da parte della Assemblea generale dell’Onu del 1948 o nella Convenzione internazionale sui diritti civili e politici del 1966 o nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950 o nei vari Trattati o Carte internazionali o nelle Costituzioni dei singoli Stati.

Si tratta di “diritti” del singolo individuo che, secondo i suddetti proclami, non possono essere compressi o limitati e che in particolare mirano a tutelare il singolo individuo di fronte al “potere” o meglio al possibile “prepotere” del “potere statale”.

In quest’ottica, è ben possibile e financo comprensibile che ciascuno (giurista o non giurista) possa essere portato ad ampliare o restringere la categoria a suo piacimento, secondo i propri sentimenti e i propri convincimenti politici, giuridici, etici, religiosi, economici e sociali. Non per nulla mi è capitato di sentir pubblicamente affermare, nei frequenti dibattiti sul fenomeno dell’immigrazione cui ho avuto modo di assistere o partecipare, che anche la “clandestinità” costituirebbe un diritto fondamentale dell’uomo, dovendo essere rimessa alla sua libera scelta se vivere all’onor del mondo o rendersi ignoto alle persone con cui viene a contatto nella sua esistenza e, soprattutto, agli organi istituzionali dello Stato in cui si trova.

Si tratta evidentemente, almeno oso sperare, di tesi assurda e paradossale; ma che intanto può trovare e trova spazio in quanto i cosiddetti “diritti fondamentali”, essendo frutto di menti umane (per loro natura deboli e fragili), non possono non costituire una categoria “aperta” a ogni inserimento, variabile, modificabile, soggetta a espansioni e restringimenti a piacere; non sono infatti oggetto né delle tavole del Sinai, né della “nuova ed eterna alleanza” tra il divino e l’umano. E intanto hanno e possono trovare un tendenzialmente universale riconoscimento in quanto, di fatto, sono – più o meno universalmente – condivisi, accettati e non discussi i valori (libertà, eguaglianza, spirito di fratellanza e solidarietà, sicurezza, dignità della persona umana, ripudio della guerra e della violenza, ecc.) su cui si fondano o a cui si ispirano.

La storia e anche l’esperienza ci insegnano che in realtà questi “diritti fondamentali” o “inviolabili” non sono invariati e invariabili né nel tempo, né nello spazio e sono stati e continuano, con frequenza maggiore o minore nei singoli Stati, a essere violati. Per quanto riguarda il tempo, non vi è bisogno di dimostrazione perché tutti sanno come certi valori e certi diritti si siano affermati lentamente nel corso dei secoli, ma non sono stati affatto sempre presenti nell’intero corso della storia umana (si pensi, tanto per fare l’esempio più immediato, alla eguaglianza nei diritti tra l’uomo e la donna); per quanto riguarda lo spazio, salta agli occhi di tutti come, in questi tempi di globalizzazione, sia i “valori cui si ispirano”, sia i diritti stessi siano tutt’altro che condivisi nelle varie comunità che compongono il genere umano (anche qui, può soccorrere lo stesso esempio relativo alla eguaglianza tra uomo e donna).

Prima della globalizzazione (o meglio, del suo inizio, perché sicuramente siamo solo al principio di un processo che verosimilmente avrà durata plurisecolare) ogni società era abbastanza chiusa e definita in se stessa, nei confini di entità territoriali (Stati, regioni, nazioni, continenti) aventi una certa stabilità di popolazione e quindi anche di costumi, di civiltà, di credenze etiche o religiose. E quindi anche i “valori” e i “diritti fondamentali” sono andati progressivamente stabilizzandosi, consolidandosi, raffinandosi e anche reciprocamente integrandosi in maniera sufficientemente equilibrata e uniforme.

Cioè trovando, i suddetti valori e diritti fondamentali, i propri limiti, le proprie eccezioni, le proprie condizioni nel reciproco rapporto, in una combinazione di “prevalenze”, “soccombenze” e “coesistenze” abbastanza comunemente accettate, perché a loro volta oggetto di un riconoscimento tendenzialmente universale.

Con la globalizzazione le cose stanno cambiando e ancora più sono destinate a cambiare perché, come giustamente hanno osservato Piffer ed Epidendio, “la dimensione sopranazionale dei fenomeni regolati dal diritto e la conseguente insufficienza della risposta dello stato (io direi: degli Stati), con il sempre più frequente ricorso a strumenti di regolazione sopranazionali, rappresentano ormai un dato acquisito, una realtà”.

L’irrompere di nuove culture, di nuovi costumi (si pensi alla poligamia), di nuovi diversi e talora contrapposti “diritti fondamentali”, in una parola di “nuove civiltà” (si pensi a quelle di matrice islamica) pongono dei problemi di “convivenza giuridica” enormi e di difficilissima soluzione sia all’interno di tutti gli Stati investiti dal fenomeno, sia nei loro reciproci rapporti. Basti pensare alle difficoltà, per gli Stati europei, di trovare una risposta comune al fenomeno dell’immigrazione in generale e dell’immigrazione clandestina in particolare.

I problemi ovviamente non si limitano a quelli dell’immigrazione, ma investono qualsiasi settore della vita e della attività dei consociati, dall’istruzione alla formazione professionale, dai rapporti economici a quelli sociali e familiari, dalla cultura all’attività sportiva, al turismo, alla produzione, ecc. Ovviamente ogni “società” ha le sue regole che ne costituiscono il diritto (ubi societas, ibi ius): regole che si sono sedimentate nel tempo e che improvvisamente si trovano a confronto con altre regole, spesso incompatibili e comunque quasi sempre difficilmente conciliabili.

In assenza (finora) di un unico legislatore sopranazionale che si sostituisca e prenda il posto dei tanti legislatori nazionali, con potere di dettare le nuove regole valide per tutti gli Stati e tutte le nazioni almeno entro determinati confini, e quindi fermo restando, in linea di massima, il principio della sovranità nazionale di ogni singolo Stato all’interno delle Comunità più vaste (internazionali, europee, ecc.), ecco che le istituzioni governative sopranazionali si sono dovute limitare, per lo più, a “legiferare per principi e per valori”, a stabilire cioè, in linea di massima, i principi e i valori a cui si sarebbero dovute attenere le varie normative nazionali, senza poter scendere eccessivamente nei dettagli proprio per non interferire oltre misura con l’autonomia dei singoli Stati.

E quindi senza preoccuparsi dell’estensione e della proliferazione dei valori di riferimento, perché il contemperamento tra gli stessi veniva e viene poi affidato, in gran parte, alla specifica disciplina interna di ciascun Stato. Di qui quindi una normativa (comunitaria) tendenzialmente molto astratta, molto teorica, molto distaccata dalla concretezza dei problemi che i singoli Stati si trovano a dover affrontare e che spesso non sono coincidenti tra gli uni e gli altri.

Fin qui, però, siamo ancora nei limiti della fisiologia. Dove si rischia di andare al di là di questi limiti e di passare dalla fisiologia alla patologia è nella traduzione pratica di questo sistema a opera (finora) della giurisdizione, ma tendenzialmente anche della pubblica amministrazione. Perché, almeno nel sistema comunitario europeo, da un lato le decisioni delle Corti di giustizia (di Lussemburgo e di Strasburgo) finiscono per avere una portata, una estensione e un’efficacia normativa nell’ordinamento giuridico dei singoli Stati superiori a quelle delle stesse Corti costituzionali nazionali e, dall’altro, il dovere imposto ai singoli giudici (e anche ai singoli pubblici amministratori) nazionali di disapplicare la normativa nazionale se ritenuta in contrasto con le direttive comunitarie rischiano di provocare quel “disfacimento” del diritto cui facevo sopra riferimento.

È infatti assolutamente inevitabile che, di fronte a una “superiore” normativa per “valori e diritti fondamentali”, i singoli giudici siano portati psicologicamente e istintivamente a scegliere e a far prevalere, nei procedimenti in cui sono chiamati a prestare la loro opera, quelli che “sentono” più propri secondo il proprio “sentimento politico”, inteso per tale non solo e non tanto un sentimento di partecipazione o simpatia per una determinata area o cultura politica (che a sua volta può essere determinata da convinzioni etiche o religiose o sociali, ecc.), ma anche un proprio personale “sentimento di giustizia”: con la conseguenza che si adotta la decisione che si ritiene più “giusta” non perché più corrispondente al dato normativo, ma perché realizza in modo personalmente più soddisfacente il proprio “sentimento di giustizia”.

Ed è per questo che, proprio con riferimento alla direttiva europea 115/2008 sul rimpatrio degli immigrati clandestini, si è determinato in Italia il caos efficacemente descritto da Piffer ed Epidendio nei loro articoli. Perché quasi ogni giudice è andato “per conto suo”, secondo il suo personale convincimento “politico”. E per ogni giudice intendo far riferimento a ogni giudice sia nazionale, sia sopranazionale. Perché non vi è dubbio che anche il giudice europeo, dovendo valutare la normativa di singoli Stati (quella degli Stati in cui qualche giudice ritenga di sollevare la questione: il che accade soprattutto in Italia) nei suoi rapporti di compatibilità con direttive europee incentrate su “valori”, è poi inevitabilmente portato a decidere sulla base di proprie “visioni politiche” permeate di una notevole dose di soggettivismo, in cui il giudice finisce per sentirsi non l’umile, fedele e magari pure prosaico applicatore di regole poste da scelte normative altrui (a cui ci si deve inchinare anche se non piacciono), ma il messaggero o l’avanguardia della nuova civiltà.

Ma tutto questo alla fine questo crea il caos, l’anarchia, il disfacimento del diritto in quanto, per dirla con Piffer ed Epidendio, vi è “il rischio sempre incombente di una tirannia dei valori, cioè di una tirannia del sentimento, fosse anche quello legato a una esigenza di giustizia”: rischio che, a seguito della dimensione sovranazionale dei fenomeni regolati dal diritto e del moltiplicarsi delle fonti e dei conseguenti spazi di maggiore discrezionalità lasciati al giudice, finisce per tradursi in un pericolo sempre più forte dell’affermarsi, da parte di ogni singolo giudice, di un “sistema di valori preconcetto”.

Il rimedio. Secondo gli Autori degli articoli citati, la sfida o il contrasto a questa deriva soggettivistica e relativistica starebbe nel controllo che la ragione è chiamata a effettuare sui beni rilevanti selezionati dal sentimento, ragione intesa come capacità razionale, aiutata ma non offuscata dal sentimento, di cogliere tutti i fattori della realtà e non solo quelli dettati dal sentimento che rischia di trasformarsi in pura ideologia.

Sul che si può anche essere d’accordo, ma con la precisazione che non sempre è facile la distinzione tra ragione e sentimento, perché anche le capacità razionali dell’uomo restano pur sempre nei limiti dell’umano: con la conseguenza che non è impensabile il tentativo di rivestire il sentimento con le (pretese) capacità razionali o, peggio, di scambiare l’uno con le altre. Perché tutti conosciamo le capacità dialettiche e argomentative con cui si possono occultare scelte che sono invece ideologiche e politiche: e questo, come vale per ciascuno di noi, vale sicuramente anche per i giudici, come insegnano sempre la storia e l’esperienza.

Da parte mia, nella consapevolezza che anche i rimedi prospettabili sono pur sempre rimedi umani e quindi, per loro natura, transeunti e imperfetti, sul piano normativo comincerei a suggerire qualche ripensamento sui meccanismi di “adeguamento” dei diritti interni ai principi comunitari per evitare che ogni singolo giudice (o ogni pubblico amministratore) possa un bel giorno svegliarsi e decidere di disapplicare una certa normativa nazionale perché da lui ritenuta in contrasto con i principi comunitari (quanto meno un passaggio attraverso la Corte costituzionale o qualche organo similare mi sembrerebbe inevitabile); sul piano della formazione e dell’etica professionale, comincerei a ricordare che al giudice è precluso sostituire il “sentimento” proprio a quello del legislatore e che l’attività del giudice – se pure non confinabile in quella di “bocca della legge” come intesa in tempi passati – resta pur sempre quella di “interpretare” e tradurre nel concreto una volontà astratta altrui che non sarà più, come negli Stati assoluti, quella del Re o dell’Imperatore, ma resta pur sempre quella del “sistema” costruito da fonti di produzione normativa diverse dallo stesso giudicante.

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