La mostra «Non sembiava imagine che tace». L’arte della realtà al tempo di Dante nasce dall’iniziativa di un gruppo di giovani amici laureati nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, che hanno sempre tentato di chiedersi le ragioni umane di ciò che le opere d’arte mostrano, convinti, con Marcel Proust, che «per lo scrittore, come per il pittore, lo stile non è mai una questione di tecnica, ma di visione».
Pochi episodi della Storia dell’arte ci hanno affascinato e destato domande quanto il rinnovamento naturalistico dell’arte gotica. Infatti, tra Duecento e Trecento l’arte occidentale vive un cambiamento eccezionale, consistente in una rinnovata attenzione per la rappresentazione della realtà fisica, percepibile con i sensi, o meglio di ciò di cui l’uomo fa esperienza nel corso della propria esistenza. È cresciuta quindi in noi la domanda su quale fosse l’autentico valore dello sguardo rinnovato degli artisti di questo tempo.
Nel nostro lavoro abbiamo individuato un aiuto fondamentale nella figura di Dante Alighieri, testimone e a sua volta protagonista del medesimo movimento che interessa le arti figurative. Basti pensare anche solo al fatto di aver impostato la Commedia come il racconto dell’esperienza personalmente vissuta di un viaggio compiuto in carne e ossa nell’aldilà, in cui il poeta osserva e giudica la propria vita e il suo tempo, fra l’altro utilizzando il volgare, al posto del latino dei dotti.
Per Dante è fondamentale l’esperienza delle “cose viste”, nella quale rientra una conoscenza consapevole delle arti figurative e della nuova rappresentazione della realtà che le stava caratterizzando. Per questi motivi, abbiamo seguito Dante di fronte all’arte del suo tempo con lo scopo di capirne meglio il significato.
C’è un luogo particolare della Commedia dove Dante afferma il valore che ha per lui il nuovo realismo: i canti X e XII del Purgatorio. Qui il poeta descrive una serie di rilievi scolpiti dalla mano di Dio. La loro caratteristica principale è appunto quella del realismo ricercato dagli scultori del suo tempo, come Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio. L’angelo del rilievo con l’Annunciazione «non sembiava imagine che tace», sembrava una figura viva, capace di parlare, e addirittura «morti li morti / i vivi parean vivi». A tal punto arriva la fedeltà al vero di quest’arte che è un «visibile parlare», un’arte in cui le figure rappresentate sembrano esprimersi con parole.
Tuttavia, l’intento di quelle immagini non si riduce alla riproduzione esatta della realtà. Sono state poste lì da Dio per la conversione dei penitenti del Purgatorio. Il realismo contribuisce a questa finalità, perché permette di «”vedere” i fatti rappresentati come se fossero presenti» (L. Battaglia Ricci, 2004) e favorisce pertanto l’immedesimazione con gli eventi raffigurati e con l’insegnamento da loro trasmesso.
Qualcosa di simile aveva voluto fare nella celebrazione del Presepe a Greccio San Francesco d’Assisi, una personalità fondamentale per l’attenzione al reale di Dante o di Giotto. Decenni dopo l’episodio, proprio Giotto dipinge il Presepio di Greccio ad Assisi ambientandolo in una chiesa contemporanea.
Iniziando così a prendere coscienza della profondità di significato che sta dietro il fenomeno dell’arte della realtà al tempo di Dante, si può apprezzare in maniera più consapevole l’ampiezza di sguardo degli artisti gotici sul reale, la loro volontà di comprenderne tutti gli aspetti, dalla crudezza più cupa del male alla dolcezza luminosa dei colori che allietano gli occhi di chi guardi il mondo che lo circonda.
Dopo aver affrontato la questione di come il realismo duecentesco si sia confrontato con due punti fondamentali dell’arte e della civiltà medievale quali la concezione della realtà come segno dell’essere e la rappresentazione di Dio come luce, la mostra si conclude con tre immagini molto significative, una poetica e due pittoriche.
Alla fine del Paradiso di Dante come nel Giudizio finale di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, Dio non appare come pura luce, bensì con la carnalità del volto di un uomo come noi, «con la nostra effige». Allo stesso tempo, nel Giudizio di Padova, ai due angoli superiori, un angelo arrotola il cielo blu, lasciando intravedere la luminosa distesa d’oro della Gerusalemme celeste, cioè la realtà ultima a cui tutto tende. In queste tre immagini abbiamo individuato una traccia per cogliere il significato profondo del realismo del Duecento: un modo rinnovato per rispondere al medesimo scopo di tutta l’arte medievale, favorire il desiderio del rapporto dell’uomo col Mistero di Dio, che in Cristo si è reso conoscibile con un volto umano. Solo che ora la visione proposta da artisti come Dante e Giotto porta ogni singolo particolare dell’esistenza dell’uomo dentro la raffigurazione della presenza del divino nella storia.
(Gianluca del Monaco)