Visitare le isole Solovki non è come andare ad Auschwitz. In primo luogo perché ci si può capitare senza essere preparati: pochi sanno che qui nel 1923 è sorto il padre di tutti i lager (compresa Auschwitz), la scuola dove è stato elaborato il codice del lavoro coatto e il modello dell’atrocità istituzionale e individuale. Secondariamente perché ad Auschwitz la bruttezza, lo squallore del male sono uno spettacolo imponente, trapelano da ogni metro di terreno, da ogni muro, mentre le isole Solovki sono un paradiso di bellezza pacificante, dove il ricordo del male sembra vinto e cancellato.
Proprio da questa bellezza nascono oggi una certa difficoltà e una sfida, infatti è difficile associare la coscienza del male che qui è stato compiuto, del sangue che è stato largamente sparso alla magnificenza del monastero medievale, ai boschi pieni di mirtilli, all’azzurro dei laghi e del mare. Sorge addirittura il problema, tutt’altro che teorico, se non sia meglio abbandonarsi al fascino dei luoghi evitando di avvelenarlo col ricordo delle atrocità: parce sepulto e guardiamo avanti. Alcune agenzie turistiche già lavorano in questo senso, lanciando l’arcipelago come meta di trekking, pic-nic, gite in barca e bici, birdwatching, osservazioni botaniche e archeologiche. È più che legittimo e inevitabile voler godere di tanta bellezza, come afferma la pubblicità online: «lontano dalla confusione, nella pace e nel silenzio dell’intatta natura delle isole».
Oggi il boom turistico è un dato di fatto: dopo gli anni di totale chiusura (dal ‘20 al ‘39 col lager, dal ’39 al ’60 con la scuola della Marina militare), si è passati dagli 8mila visitatori del ‘60 ai 100mila di oggi, e naturalmente si tenta di sfruttare il fenomeno su vasta scala. Tutto ormai è organizzato: l’ufficio turistico, il Museo del monastero, il Museo del lager, i nuovi alberghi, il minuscolo aeroporto per i voli charter; ci sono biciclette e barche a nolo, campeggi e bus. Molte interessanti possibilità. Ma all’orizzonte ce ne sono anche altre più preoccupanti, come quella che le isole siano preda della speculazione edilizia e si coprano di chalet per i week end dei pietroburghesi.
Ma questa non è la solita storia del luogo incontaminato che viene aggredito dalla società dei consumi, qui siamo alle isole Solovki, nel «tumore madre che ha generato le metastasi del Gulag», come ha scritto Solzenicyn. Questa terra abitata per cinque secoli dai monaci ortodossi e bagnata del sangue di innumerevoli vittime per un ventennio del ‘900, ha un valore universale («colosseo del XX secolo» l’ha chiamata Giovanni Paolo II); qui la preghiera e la santità sono indissolubilmente intrecciate allo splendore della natura e alle fosse comuni. È su questo intreccio inquietante e gravoso che si scatena oggi lo scontro.
Attorno al destino delle isole è in corso una sorda lotta tra la comunità locale (che desidera solo poter vivere di turismo), il museo (interessato a conservare la memoria del lager e ad arricchirla di tutti i possibili dati storici e materiali) e i monaci che dal 1990 sono tornati a vivere nel monastero e che sognano di riguadagnare l’intero territorio alla vita spirituale, come nel passato. La linea politica generale favorisce la Chiesa, e infatti nel 1998 il Museo ha dovuto siglare un accordo che prevede la restituzione graduale di tutti gli edifici e delle isole stesse alla Chiesa ortodossa. Ma la tutela ecclesiastica sembra indifferente alla memoria del campo di concentramento, così sull’isola di Anzer (dove si trovava l’ospedale del lager, in cui sono morti molti sacerdoti e laici) già dal 2004 l’accesso è consentito solo ai pellegrini del monastero, e i recenti lavori di restauro hanno cancellato tutti i segni del lager. E dal 2009 il Museo ha un nuovo direttore nella persona dell’archimandrita Porfirij, abate del monastero. Questa linea di tendenza spaventa la comunità civile, che teme di essere espropriata dal monopolio monastico, e preoccupa gli storici del museo.
Certo ci sono in gioco interessi economici, ma anche concezioni diverse. È certamente falso pensare di poter separare i diversi ambiti: l’osservazione delle foche o gli antichi labirinti a prescindere dalle fosse comuni, o il lager a prescindere dal monastero. Ma è altrettanto inaccettabile guardare tutto alla rinfusa, senza una gerarchia di valore. E soprattutto senza fare i conti con un fatto sconvolgente: che, al di là di tutte le nostre discussioni, in questo luogo la bellezza estrema e il male estremo sono andati di pari passo e non si può più fare esperienza della prima senza cercare di capire il senso del secondo.
L’interesse delle isole Solovki sta proprio qui: nella sfida lanciata alla memoria, che qui non ha trovato, né può trovare una formula statica, definitiva. Se ad Auschwitz si va con il chiaro ed unico scopo di far memoria dell’Olocausto, alle Solovki occorre che intervenga ogni volta il libero arbitrio. C’è di tutto e bisogna voler guardare, e voler capire cosa significhi questo legame così intrinseco tra il lager e il monastero, tra il lager e questa terra bellissima. Voler capire come mai il «tumore madre» si sia formato proprio qui e non altrove. Se non vogliamo accontentarci di guardare solo i dettagli meno impegnativi di questo grandioso mosaico, dobbiamo abbracciare con lo sguardo il bene come il male estremo. Come non fu per un caso senza significato, ma per una precisa volontà di dissacrazione e di sfigurazione, che il regime scelse questo luogo santo per i suoi esperimenti omicidi, così non è un caso che oggi questa sfigurazione sia vinta da una risorgente e incontaminata bellezza. Se non si vuole perdere la complessità di questa realtà e di questa storia, ogni volta che si visitano questi luoghi la domanda diventa una domanda su tutta la nostra vita: come è possibile e che senso ha il bello in un mondo in cui regna il male e che sembra andare solo verso la morte? E ogni volta questa domanda non trova una risposta facile o già pronta, ma si trova piuttosto davanti al fatto inquietante di questa bellezza incredibile, realissima, ma totalmente non terrena, realmente non fatta da mani d’uomo.
E allora, forse, per evitare la distrazione e la profanazione di un turismo superficiale e consumistico, sarebbe bene che questa terra tornasse interamente alla Chiesa ortodossa, che aveva saputo farla fiorire spiritualmente e materialmente. Ma in questo caso alla Chiesa stessa spetterebbe il compito serio e imprescindibile di non disperdere neanche un singolo dettaglio materiale della tragedia storica del XX secolo, e di far intendere cosa significhi che anche questo dolore è stato redento.