Un’immensa sfiducia nella vita. Questo, secondo Eugenio Montale, sarebbe il tratto caratterizzante, in maniera più o meno esplicita, della nostra epoca. Questo sarebbe il frutto di una «svolta storica di proporzioni colossali», che ha iniettato il suo veleno – il cinismo e la sterilità, mascherati dall’euforia dilagante – nel «mondo intero», o almeno in «quella parte del mondo che può dirsi civilizzata».
Simile giudizio è contenuto nel discorso pronunciato dal poeta, il 12 dicembre 1975, all’Accademia di Svezia, in occasione del conferimento del Premio Nobel, e pubblicato con il titolo È ancora possibile la poesia? Si tratta di un testo fosforico e spigoloso, su cui, in coincidenza col trentennale della morte dell’autore, pare non improprio sostare. In esso infatti, al di sotto del tono a volte sarcastico, lampeggia il desiderio – dello scrivente – di fare la propria parte, di contribuire, cioè, da poeta, all’intendimento della propria età. E di lavorare, dunque, «per l’umanità», attraverso la difesa di quei valori più fortemente attaccati dalla corrosione mercificatoria in atto.
Che cosa sta succedendo, si chiede Montale, nel mondo? La nuova e terribile malattia, che tutto e tutti sembra contagiare, si chiama – a suo dire – «spirito utilitario»: ovvero, una percezione della vita, «rumoristica e indifferenziata», per cui il profitto e il consumo, la pianificazione e il successo diventano le uniche chiavi di lettura, gli unici binari dell’esistenza. Usare e buttare – gli individui come i libri – sembrano a Montale le nuove leggi, i criteri finalmente invalsi in ogni campo o ambito del fare e del pensare. Così che l’uomo, per esorcizzare l’orrore della solitudine, è quasi costretto a liberarsi della propria coscienza. Perciò «la multisecolare diatriba sul significato della vita», sullo scopo buono con cui la libertà di ciascuno è chiamata a confrontarsi, ha smesso di essere interessante. Non ci sono più ipotesi, non ci sono più autorità intorno alle domande naturalmente scritte nel cuore di ognuno.
L’esercito di coloro che lavorano controcorrente, una vera e propria legione di anime immacolate, non può impedire che dilaghino la corruzione, il delitto, la violenza, l’intolleranza, il fanatismo, lo spirito persecutorio – i frutti più maturi «dell’eterno albero del male». Sicché «il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra») ha oggi «i lividi connotati della disperazione».
Trascorsi trentacinque anni, tale giudizio e tale posizione – una simile assunzione di responsabilità da parte di Montale – conservano inalterata la propria forza, la propria capacità di spronare a un surplus di attenzione. Ci si permette, quindi, di richiamarne alcuni spunti, ritenuti fondamentali, seppure intrisi, nell’originaria formulazione, di ironia e risentimento.
Il confort sempre più diffuso nell’attuale civiltà, con la progressiva affermazione delle «comunicazioni (e dei beni) di massa», ha da un lato alterato radicalmente la nostra percezione del tempo (con la frenesia da cui derivano impazienza e disattenzione), e dall’altro disintegrato, o confuso, ogni senso di identità. L’orizzonte pare a Montale assai cupo: un esibizionismo isterico – il bisogno spasmodico di farsi subito “apprezzare” – ha cancellato ogni occasione di riflessione, ha tolto il respiro al dono della speranza. «Oggi più che mai», si legge nel testo, «l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso». Il contenuto profondo dei suoi gesti è «il vuoto assoluto». E i suoi talenti, le sue arti e le sue tecniche, egli piega per ottenere quel «massaggio psichico», che, attraverso lo stordimento della ragione, simile orrore consenta di occultare.
La perversione della natura umana, che induce a pianificare la vita come una merce o un prodotto industriale, è messa fuoco causticamente. E perciò ci si può chiedere, senza pretesa di trovare una risposta, quale sarà l’avvenire di un mondo siffatto, effimero e fatiscente. Forse, suggerisce Montale, «per necessario contraccolpo», «per miracolo», ne potrà nascere una cultura nuova, e insieme antica, cioè fedele alle proprie eterne ragioni. A questa “restaurazione”, viene detto, «possiamo tutti collaborare»: il poeta, l’insegnante, lo scolaro; il giornalista, il manager, l’operaio. Riscoprendo il senso della memoria e il piacere della discrezione. Recuperando, ciascuno nel proprio campo, il gusto della gratuità: ovvero il significato autentico del concetto di “convenienza” (sintesi disinteressata, e perciò liberatoria, di bellezza e verità), che, secondo il paradigma dell’esperienza artistica, costituisce uno dei vertici dell’animo umano.
Affinché ciò possa realizzarsi, conclude Montale, è però necessario saper dire di no: è necessario sottrarsi attivamente alla schizofrenica esplosione in atto, alla manipolazione che tutto travolge e distorce. Perché l’uomo oggi possa rinvenire se stesso, occorre «un vero salto di maturità», che lo conduca al di là dei gusti e delle mode, al di là della «crisi» in cui sono precipitate tutte le arti e le economie. Smettere di sentirsi padroni, detentori, sotto chiave (o sotto vetro), di ogni controllo: per accettare la provocazione avventurosa della storia, il gusto di un «qualsiasi grande spettacolo naturale»; per ritrovare la realtà. Questa, secondo Montale, è la sfida a cui – oggi – siamo chiamati. Non è sicuro, per Montale, che la potremo vincere, ma non sarebbe bene che l’arte e la poesia, come la scuola e la politica, rinunciassero alla loro più nobile funzione, di auspicio e accompagnamento per ciascuno sul cammino verso il proprio autentico destino, la grazia della felicità.