Osservare che il linguaggio è misterioso è come notare che un tramonto è struggente: vero, ma non basta. Occorre essere in grado di individuare le ragioni che ci portano a formulare questo giudizio così intuitivamente evidente.

Certo, la questione del rapporto tra linguaggio e certezza è troppo vasta perché se ne possa parlare sinteticamente, tuttavia, pur senza la pretesa di suggerire risposte, ci offre l’occasione per notare come ci siano almeno due modi diversi per intendere il rapporto tra linguaggio e certezza, due modi che vanno distinti ma che convergono entrambi necessariamente verso il mistero: la certezza che viene dal linguaggio (come elemento strutturante ed esclusivo della mente e del pensiero umano); la certezza che abbiamo sul linguaggio (come risultato delle nostre osservazioni razionali su un fenomeno della realtà). A questo proposito due fatti ci provocano e ci stupiscono costantemente.



È certo che il linguaggio serve per comunicare certezze, ma come si veicola la certezza con il linguaggio? Esiste a riguardo del linguaggio almeno una partizione che chiunque condividerebbe: da una parte, le parole (archivio di certezze condivise); dall’altra, le frasi (elementi formati di volta in volta: nessuno, salvo per scopi pratici banali, potrebbe pensare ad un dizionario di frasi). La certezza ovviamente si lega alla possibilità di dare un giudizio di verità, e questa si applica solo alle frasi: non si può dire se albero è vero ma se quest’albero è fiorito sì. Il punto si riduce dunque alla seguente domanda: come fa una frase a veicolare certezza? Sappiamo dalla tradizione analitica classica e poi dalle elaborazioni medievali che certe sequenze di frasi conducono necessariamente a giudizi certi. Si tratta di quelle macchine della verità fatte di parole che chiamiamo “sillogismi”. Se ad esempio dico tutti gli uccelli depongono uova e la gallina è un uccello, non posso non concludere che la gallina depone uova.



Questo meccanismo esaurisce la nostra domanda su come faccia il linguaggio a generare certezze? Nient’affatto e lo sanno bene i filosofi del linguaggio, che discutono da sempre sul valore euristico dei sillogismi; e lo sanno anche gli studiosi di acquisizione del linguaggio nei bambini che cercano di capire come faccia un bambino ad assegnare nomi a oggetti fisicamente differenti e cogliere certe analogie tra essi; infine, lo sa anche chi guarda il linguaggio dal punto di vista neuropsicologico, perché osserva che i circuiti cerebrali che portano alla costruzione di un sillogismo che parla del mondo si attivano anche se parlo di cose che non so. Se vi dico che il gulco è un opramma e che tutti gli oprammi gianigiano le brale non potete non concludere che anche il gulco gianigia le brale, sebbene non abbiate – come me, del resto – la più pallida idea di cosa sia un gulco, un opramma, le brale e il gianigiare.



Siamo di fronte alla prima porta verso il mistero. Sappiamo usare il linguaggio per veicolare la certezza, ma non sappiamo affatto come questo sia possibile. Lo stupore che la struttura del linguaggio umano e la sua aderenza alla realtà ci provocano non è in questo differente da quella che prova il fisico quando si accorge che una funzione matematica è in grado di descrivere un fatto del mondo. Si possono opporre molte “attentuanti” (inclusa quella classica che in fondo noi proiettiamo sul mondo quello che la nostra mente ci permette di riconoscere), ma questo non fa che accrescere il mistero: la certezza che viene dal linguaggio non la genera il linguaggio. Verrebbe voglia di parlare di “effetto Münchausen”, dal celebre racconto: come non ci si riesce a tirare fuori dall’acqua afferrandosi da soli per i capelli, così se basiamo la certezza che viene dal linguaggio sul linguaggio stesso non riusciamo a spiegare niente. Ma questa è solo la prima porta.

Cosa sappiamo di certo sul linguaggio? Dalla seconda metà dell’Otto­cen­to, sulla base essenzialmente di osservazioni di tipo clinico, sappiamo che il linguaggio è controllato da una rete specifica del cervello. Oggi la sfida è cresciuta di livello e la posta in gioco è diventata cruciale per comprendere l’origine della nostra mente e in definitiva della nostra specie: infatti non ci si chiede più solo se il linguaggio dipende dal cervello ma se la struttura del linguaggio (quel codice che comunemente chiamiamo “grammatica”) dipenda da esso. Solo cinquant’anni fa questa domanda era considerata sconveniente: su base pura­mente “ideologica” si sosteneva che la struttura della grammatica di una lingua fosse del tutto convenzionale, dunque, come non avrebbe senso andare a caccia della rete neurologica che ci fa fermare in macchina al colore rosso del semaforo (potrebbe benissimo essere blu) così sembrava folle cercare una rete neurologica che portasse a identificare le regole del linguaggio come espressione del cervello. Questo faceva gioco ad almeno due gruppi di ricerca e agli interessi economici e culturali cui erano connessi: a chi pensava che tra gli esseri umani e gli altri animali non ci fossero distinzioni qualitative rispetto al codice di comunicazione, e a chi cercava di simulare con una macchina le capacità computazionali di una mente umana (e con questo di coglierne il funzionamento reale).

A guastare la festa, verso la fine degli anni cinquanta del secolo scorso vennero degli studi sulla struttura logica del linguaggio che mostrarono come ridurre il codice di comunicazione umana solo a meccanismi di tipo statistico era impossibile: le grammatiche contengono nel loro nucleo la capacità potenziale di produrre strutture infinite (capacità in questo per certi versi comune alla matematica e alla musica). Inoltre, la comparsa dell’infinito non ammette gradualità, esclude cioè che esistano negli altri esseri viventi “precursori” di questa capacità: certamente gli animali comunicano, ma non lo fanno utilizzando meccanismi capaci di “costruire” l’infinito. Noam Chomsky, capostipite di questi studi, collegò questa complessità, l’universalità di alcuni principi delle grammatiche e l’apprendimento spontaneo del linguaggio nel bambino in una visione unitaria arrivando a dichiarare che “gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale con una capacità di natura e complessità sconosciuta”.

Oggi sappiamo dagli studi di neuroimmagine che questi circuiti che generano strutture infinite sono profondamente ancorati nel nostro cervello, nella nostra carne, anzi ne sono espressione diretta. Dunque, i “confini di Babele” esistono e nessuna ideologia può pensare di dissolverli. Perché le cose stiano così non ci è dato di saperlo: il mondo poteva essere diverso, potevamo avere tutti la stessa lingua, o capirci senza limiti eppure ciò non accade. E non abbiamo nemmeno una spiegazione condivisa e chiara in termini evolutivi di come mai tutto ciò sia capitato solo a noi esseri umani, ma non si deve trattare di un fatto marginale, come invece per altri tratti esclusivi di certe specie, visto che proprio la specie umana è l’unica che vive l’esperienza del progresso. Se un bambino non rifà da capo la storia dell’umanità quando nasce scoprendo la ruota a tre anni, il fuoco a cinque e via di seguito, mentre un ragno, per esempio, riparte da zero, questo non può non dipendere in ultima analisi che dalla struttura particolare del linguaggio.

Resta, almeno per chi scrive, un altro mistero legato al linguaggio e alla certezza, un mistero per certi versi struggente che chiama in causa ancora una volta tutti noi. Alla nostra specie è dato, anche in questo caso come dotazione neurobiologica specifica, la capacità di trasferire sulla materia inerte le espressioni del linguaggio: cioè sappiamo scrivere. Se la scrittura fissa in modo certo ciò che è espresso nel linguaggio, perché Cristo che certamente sapeva leggere – e non abbiamo motivo di pensare non sapesse anche scrivere (malgrado, come mette bene in luce John Paul Meier, l’unica testimonianza inequivocabile è l’episodio della scrittura sulla sabbia durante la lapidazione dell’adultera) – perché Cristo, dunque, non ci ha lasciato nulla di scritto? Se sia un mistero o se questo fatto si presti invece all’interpretazione di un segno che sta a indicare che senza il coinvolgimento personale di un incontro non esiste via, questo lo lascio a tutti noi come domanda.