In un’estate avvelenata dalla litigiosità politica e dall’incertezza economica, ognuno vive con disagio o con sdegno il prolungarsi di polemiche che non accennano a comporsi in nome di un interesse comune. Un testo molto noto di Virgilio viene scritto in una situazione di grande scontento generale, quando le terre dei grandi proprietari padani vennero confiscate per distribuirle ai veterani di Cesare. L’orizzonte della prima bucolica è più ampio degli stretti confini della circostanza storica e soprattutto è intessuto dal sentimento di un dolore non eliminabile dalla vita dell’uomo e della natura: cosa che manca in modo quasi totale nel nostro pensiero di moderni e che lo priva di uno sguardo di pietà e della profondità della malinconia.
Il testo virgiliano, composto quando il poeta era ancora giovane, opera perfetta nonostante l’età dell’autore, si apre indicando l’opposta sorte di due pastori, Titiro e Melibeo. La condizione del primo è la tranquillità della pace, allietata da una natura ospitale e serena, che gli permette di comporre canti d’amore. Egli dichiara la sua riconoscenza per un benefattore, dal quale ha ottenuto la libertà e la possibilità di conservare i suoi campi.
Melibeo invece si è visto confiscare i campi e indica nel suo gregge costretto a partire una capretta, che ha appena partorito due gemelli sulla nuda pietra, anziché nella stalla: il suo stato doloroso è metafora della sorte degli uomini e dei tempi; egli inoltre non idealizza ciò che sta per lasciare, riconosce che i campi aviti sono una terra dura, cosparsa di sassi e di paludi, ma prevede i pericoli a cui il bestiame andrà incontro, le epidemie, i pascoli sconosciuti nocivi alle pecore gravide.
Diversa invece, ma senza che egli provi invidia, gli appare la sorte di Titiro, che potrà rimanere nella sua campagna, tra acque note e fonti rese sacre dalle ninfe, a godere la frescura ombrosa, a udire il sussurro delle api, il canto del potatore, il gemito delle colombe.
L’amarezza di Melibeo sfuma nel desiderio di un ritorno improbabile e nella certezza che un soldato si approprierà dei suoi campi. Egli non potrà più sorvegliare il gregge nell’ombra di una caverna, non canterà più. La poesia tace, ecco dove la discordia ha trascinato gli sventurati cittadini. Tema caro a Virgilio, che lo riprende con rimpianto anche nella nona bucolica: quando sopraggiunge l’aquila, non a caso insegna delle armi romane, non valgono più le colombe profetiche della poesia.
La chiusa del componimento è di incantevole bellezza; Titiro invita l’amico a cenare con lui per l’ultima volta, ben sapendo di non poter lenire la ferita del distacco, ma offrendo la sua ospitalità e i suoi semplici beni:
Tuttavia stanotte potresti riposare qui con me
su un giaciglio di verdi frasche; abbiamo frutti maturi,
morbide castagne e formaggio in abbondanza,
e già da lontano fumano i comignoli dei casolari
e più lunghe scendono le ombre dagli alti monti.
Lo sguardo di Virgilio si sposta dall’interno della sua casa più in alto, verso il cielo, dove il fumo delle cascine, che allude all’intimità domestica, si perde in una nota di mestizia, nel crepuscolo che annuncia imminente la notte. L’ombra presto avvolgerà ogni cosa, la sorte degli uomini vegliata dai monti lontani.
Nessuno ha detto in questi mesi estivi parole neppure lontanamente simili a queste. Forse in alcune posizioni del Capo dello Stato si intravedeva una cura attenta alla vita sociale, ma il mondo degli intellettuali non ha prodotto, a parere di chi scrive, alcuna cosa degna di nota. Per questo riandare all’eco di una parola antica rende più forte la consapevolezza che la vita dell’uomo è una lotta, in ogni tempo e in ogni luogo. Una lotta in cui i segni di pace e di bellezza non mancano mai.