“Ogni tendere, ogni premere/ è quiete eterna nel Signore Iddio”. Ecco, nei versi di Goethe, la potente certezza che sta al centro del discorso di Costantino Esposito, che a grandi linee procede così. Noi viviamo in uno stato di incertezza, che paradossalmente è stato accresciuto, e non diminuito, dai progressi tecnico-scientifici. La modernità, che è l’epoca della massima conoscenza, è anche l’epoca della massima inquietudine. E questa inquietudine tocca il suo picco nella seconda metà del Novecento, cioè con il postmoderno. Per ritrovare la sicurezza è dunque necessario seguire un’altra via. Non pensare che la pace possa venirci dalla oggettività e dalla conoscenza (le quali oltretutto ci inchiodano alla nostra dimensione biologica, dunque, sostiene Esposito, alla disperazione). Ma viceversa puntare sulla certezza e sull’affidamento, sul rimettersi ad altri con la fiducia che il bambino ha nei confronti della madre.  Si tratta di un discorso lucido, onesto, aperto e profondo, che però vorrei confrontare con quattro piccole o grandi incertezze rispetto alla certezza.



La modernità porta incertezza? Ne siamo certi? Ecco il primo interrogativo. Pensiamo alla vita dei nostri lontanissimi antenati nelle savane: si viveva vent’anni, il tempo di consumare le due dentizioni, poi ancora i denti del giudizio come extrema ratio, poi la morte per fame e reumatismi, se prima non si era mangiati dai leoni. I nostri progenitori erano dunque ben più esposti di noi, e la loro vita era infinitamente più breve, crudele, brutale e insensata della nostra.



È in questo orizzonte che trovano la loro remotissima origine fede e sapere. Nelle tombe troviamo strumenti tecnici, armi e suppellettili, e oggetti religiosi, per esempio statue di dei. Questi due tipi di ritrovati sono evoluti in parallelo, non per accrescere, ma per diminuire l’incertezza. Tuttavia se oggi viviamo in un mondo incomparabilmente più sicuro, se – banalmente ma decisivamente – la nostra vita dura enormemente di più, questo non dipende dalla fede, bensì dal sapere, che dunque a tutti gli effetti ha accresciuto le nostre certezze. E se siamo così sensibili all’incertezza non è per un qualche fallimento della modernità, ma piuttosto perché siamo diventati più civili ed esigenti, con un processo affine a quello per cui oggi non sopporteremmo le operazioni senza anestesia subite dai nostri antenati.



Sicurezza emotiva o certezza oggettiva? Il secondo interrogativo è: siamo certi che, come sostiene Esposito, la prima certezza sia la dipendenza dalla madre in quanto affetto e non l’oggettività, cioè la certezza sensibile con cui inizia la Fenomenologia dello spirito di Hegel? Non solo perché la madre non l’hanno conosciuta tutti, mentre gli oggetti sì, ma anche perché è anzitutto come certezza sensibile che si instaura il rapporto fiduciario tra il bambino e la madre.

Ciò detto, è vero che la certezza è qualcosa che – come il coraggio secondo don Abbondio – uno non se la dà, ma la riceve. Però, di nuovo, la riceviamo in continuazione dal mondo, stabile e certo di fronte a noi. L’osservazione di Newman, secondo cui noi siamo tanto più certi quanto meno abbiamo messo in moto dei ragionamenti, è sacrosanta. Ma, come è chiaro anche da molti esempi di Newman, è intimamente connessa con l’esperienza sensibile, perché altrimenti avremmo a che fare con il credo quia absurdum, o addirittura con la cieca sottomissione all’autorità.

Certezza o speranza? Il terzo interrogativo è: siamo certi che la certezza sia il sommo bene? La depressione è a ben vedere l’esperienza umana più vicina alla pace eterna e alla certezza assoluta. È questo che rende insoddisfacente e inspiegabile anche la rappresentazione della vita eterna, quando cerchiamo di fissarla in contorni più precisi. Molto più forte della certezza, molto più decisiva, è la speranza (che ha sempre al proprio interno un elemento di incertezza), come intuitivamente si capisce se confrontiamo la diversa gravità dei loro contrari, l’incertezza e la disperazione.

Diversamente da Esposito non credo affatto che l’essere umano, quando abbia rinunciato a un ordine trascendente, sia necessariamente consegnato alla disperazione. Si tratterebbe anzi di capovolgere il discorso, e di notare come proprio il nostro essere naturalmente nel mondo richieda una forma di speranza, come dimostra – anche qui – l’esperienza della depressione, ossia appunto della disperazione. Il mondo si chiude e si riapre di fronte a noi a seconda del nostro grado di speranza, e noi abbiamo bisogno delle endorfine proprio come abbiamo bisogno delle proteine. Così, la speranza precede ogni rivelazione religiosa, e può evolvere sino a diventare una speranza razionale e valida per tutti gli uomini. Ossia una speranza che non collide con quanto sappiamo del nostro essere naturale, diversamente da ciò che accade per la speranza, rispettabilissima ma valida solo per i credenti, nella resurrezione.

Certezza o verità? E qui veniamo a una quarta incertezza cruciale. Siamo certi di poter essere certi della certezza? Dobbiamo fidarcene? Ci sono delle madri cattive, sia in senso proprio, sia in senso figurato; ci sono mistificatori e manipolatori, sia in nome della ragione sia in nome della fede. Inoltre, la certezza, e proprio l’esperienza sensibile ce lo dimostra, può essere ingannevole. Così, posso essere vittima di allucinazioni; oppure mia madre potrebbe non essere mia madre, e potrei al limite essere come le papere di Lorenz; oppure ancora, come è successo ai ragazzi della Hitlerjugend, la mia certezza e il mio affidamento fondamentale potrebbe chiamarsi Adolf Hitler.

Dunque la certezza da sola non basta, ha bisogno della verità, cioè del sapere. E in questo campo piuttosto che con l’esperienza dell’affidamento alla madre ci confrontiamo con l’esperienza opposta, con l’uscita dell’uomo dall’infanzia e con “l’osa sapere!”, cioè con i caratteri dell’Illuminismo secondo Kant. Infatti nessuno nega che alla luce dell’affidamento, della certezza, della dipendenza, si possa vivere e morire, e forse anche molto bene. Lo riconosce lo stesso Kant quando, in Che cos’è l’illuminismo? osserva che “è tanto comodo essere minorenni”. E certo Edipo sarebbe vissuto meglio se non avesse saputo la verità. Questi moventi pratici, anzi, “eudemonistici”, si sarebbe detto una volta, non ci esentano da una considerazione: vivere nella certezza, proprio per quello che ha detto Esposito, non è vivere nella verità. Ora, proprio in nome della verità, dobbiamo chiederci: la promessa di pace e di certezza, magari l’“adorare, gioire, tacere” con cui un grande filosofo, Antonio Rosmini, ha chiuso la propria esperienza terrena, dà pace. Ma questa pace non rischia di confondersi con gli strumenti del Grande Inquisitore, il Miracolo, il Mistero, l’Autorità?

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