E l’esistenza diventa una immensa certezza. Fin dal titolo la relazione al Meeting di Rimini di Costantino Esposito espone una sfida e una scommessa: che l’esistenza, e la sua percepita friabilità individuale e collettiva, possa diventarla, la certezza di sé che non avverte. Perché quale certezza può essere asseverata oggi, l’“età dell’incertezza” di tanta autorevole sociologia contemporanea? Le analisi di Bauman ne sono un’icona concettuale: l’incertezza è la condizione del nostro tempo, esito conclamato della guerra persa dalla modernità per affrancarsene.
Per il “progetto moderno” l’incertezza avrebbe dovuto essere una condizione progressivamente riducibile dall’avanzamento dell’umana capacità, tramite la scienza e la tecnica, di autoassicurarsi nel mondo. Non pare essere andata così. Gli ultimi cinquant’anni, il postmoderno se si vuole, del progetto moderno hanno dichiarato l’incompiutezza di principio: contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono emerse come “caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani” (Bauman).
Ma il sospetto che questa incertezza sia incurabile, non si traduce in un’accettazione della necessità, in una “benedizione del fato”, nel nietzscheano “vangelo della necessità”: l’uomo comune, l’uomo che ha rilievo sociologico, non rinuncia a trovare assicurazioni per l’esistenza; e da tale contrasto nasce una sempre più diffusa paura.
Le ricette “neo-pagane” della saggezza (Natoli) sul filo Spinoza-Nietzsche restano per pochi; e a livello di massa al più esitano nello stordimento consumistico al supermercato delle occasioni della vita da afferrare, salvo il venir meno di questo stordimento quando alla “cassa”, sempre più spesso per tanti, scopri di non aver più di che pagare.Come Esposito ci fa notare, crollate con la certezza “interna” (lo spaesamento interiore di un io consegnatosi ai paesaggi del relativismo) insieme tante surrogate certezze dall’“esterno” (Stato e società), l’incertezza ci si presenta come una sorta di generale “precariato” dell’esistenza.
Come è possibile allora che “l’esistenza diventi una immensa certezza”? Perché questo, né più né meno è il percorso che Esposito ci propone, riprendendo l’invito – l’affermazione di un’esperienza possibile – di Giussani. Per far questo Esposito ci propone un cambiamento di direzione dello sguardo, che è in sé un’esperienza di conoscenza: una conversione, una metanoia – un rivolgimento di tutto lo sguardo nel cambiamento di direzione, avrebbe scritto Heidegger: in origine e all’origine l’esperienza umana è l’esperienza della certezza, il caldo sentire di un affidamento a un altro che ci cura e ci ha in cura fin dall’inizio, dal nostro inizio e dall’inizio di ognuno.
Il modulo cognitivo-esperienziale che fonda il nostro esserci è quest’originario maternage, dell’essere figli di qualcuno: noi veniamo al mondo, siamo posti nel nostro essere, da Qualcuno e con Qualcuno, che è e resta la nostra originaria “provvista” di certezza. Noi veniamo a noi nell’assenso (Newman) che diamo a questa certezza, a questo “sentire” del tutto ragionevole e previo ad ogni razionalità discorsiva e in definitiva suo fondamento. Tener viva questa certezza, ravvivarla nella vita di ogni giorno e di ogni momento è riprendersi – riprendere sé – in questo originario legame a Qualcuno che ci costituisce, vera fonte della certezza: antropologicamente il volto e la voce della madre.
L’ “incertezza della vita” in tutta la latitudine dei suoi sensi – quella che ci appare un primum irredimibile, nel recidersi di questo legame, e da cui tenersi lontani nello stordimento della vita o da sostenere come necessità del destino se si è capaci – viene dopo; è la continua, strutturale “tentazione” della vita: l’esposizione a cadere fuori della certezza che originariamente è e in cui originariamente si è: il “ruinio della vita fattizia” di cui ha parlato una volta il giovane Heidegger. L’Altro che da sempre mi chiama, e che nell’esperienza del venire al mondo ha il volto della madre e la sua voce, è la risposta sempre possibile a questa tentazione, e sempre da dare. Ma possiamo rispondere solo se sappiamo avvertirci “chiamati ad essere in ogni istante”; se teniamo fermo “che il nostro io è vocazione, che noi siamo strutturalmente in rapporto con quello che ci dà l’esistere e con Chi ci dona il senso dell’esistere; e questo senso non è mai una motivazione astratta ma si gioca sempre in incontri storici, nei casi della vita”.
Sul filo di quest’esperienza di chiamata, in cui l’esistenza è fin dall’inizio coinvolta, dietro il volto della madre che chiama, è sempre lì che ci chiama, per chi sa ascoltarla, un’altra Voce, che ci invita a guardarlo in Volto: sopravanza un maternage ultrafondativo dell’esperienza antropologica, il maternage creaturale; dietro mia madre, a sostenerne le braccia che mi sostengono, c’è il Dio Padre e Madre, anche di mia madre, e nel Figlio di ogni figlio che ci può essere.
E’ solo girando su questo cardine che alla vita si apre dall’immensa incertezza del mondo la porta dell’esistenza come certezza, l’esistenza diventa (ridiventa) quella che è nella sua origine: certezza. Questa è la lectio che il Meeting voleva proporre, consegnandosi, nel limpido e coinvolgente percorso mirabilmente tracciato da Costantino Esposito, al rivivimento interiore dei suoi ascoltatori.