Tra i vizi capitali il meno noto, anche se molto diffuso, è l’accidia. Se ne è scritto in tutti i tempi, riflettendo sulla vita morale in base ai concetti di vizi e virtù, in una modalità concreta e facilmente osservabile anche nella vita quotidiana. Orazio, così saggiamente epicureo, in una sua epistola definisce l’accidia strenua inertia, smaniosa inerzia, in altre parole inquietudine. Tacito racconta il languire degli studi in tempi di oppressione politica e realisticamente afferma che la ritrovata libertà ne favorirà la ripresa, ma con fatica, perché vi è una segreta dolcezza anche nell’inoperosità che, dapprima invisa, alla fine viene amata.



Per san Tommaso l’accidia non è solo l’indugio a decidersi per il bene e l’incostanza nel perseguirlo, ma più precisamente la tristezza del bene, una inattività dell’anima che non vuole e insieme non può volgersi alla vera gioia.

Dante la rappresenta nell’Inferno ponendo gli accidiosi insieme agli iracondi nel pantano dello Stige: Fitti nel limo, dicon: “Tristi fummo/ nell’aere dolce che dal sol s’allegra,/ portando dentro accidioso fummo:/ or ci attristiam nella belletta negra”: come furono tristi nella vita, avvolti nel fumo della negligenza, così nell’eternità vivono lo stesso umor nero, che li stringe alla gola come la melma di cui hanno piena la bocca. Il poeta ritorna sull’accidia nei canti centrali del Purgatorio, dove spiega la dinamica della libertà umana; per bocca di Virgilio definisce l’accidia amor del bene scemo/del suo dover, ovvero desiderio solo intenzionale, privo degli atti necessari a raggiungerlo e a gustarlo. Dante spiega come ogni uomo desideri il vero bene e lotti per ottenerlo: Ciascun confusamente un bene apprende/ nel qual si queti l’animo, e disira;/per che di giugner lui ciascun contende. E proprio sul limite della balza vede gli accidiosi pentiti espiare il fatto di non aver assecondato alcun desiderio e di non averlo perseguito con amore lesto e operoso: Se lento amore in lui veder vi tira,/ o a lui acquistar, questa cornice,/ dopo giusto penter, ve ne martira.



L’insufficiente energia morale dell’accidia è riconosciuta come propria da Petrarca nel Secretum, il dialogo letterario con sant’Agostino; in quest’opera egli la fa risalire al disinganno. Anche in questo i moderni, e non solo i poeti, sono un po’ tutti suoi eredi.

Si può ipotizzare che l’accidia sia un vizio predominante dei nostri giorni; molti segnali lo indicherebbero alla semplice osservazione: la disistima di direttive decise, la noia, lo spreco, la mania dell’effimero, la scontentezza, il risentimento sono comportamenti diffusi e poco percepiti e proprio per questo generatori di mali peggiori che riempiono la società di violenza e di ingiustizia.



Come si corregge questa cattiva abitudine dell’anima connessa con l’inattività, con l’inquietudine, con l’ira, con la malinconia?  E’ difficile vincere la tristezza del bene con le sole proprie forze, ma  anche tante parole che ingombrano di pareri, di consigli, di prediche appaiono poco efficaci. Un avvenimento  può scuotere la vita e cambiarle direzione, come si nota nelle biografie dei grandi e in vicende famigliari più nascoste. Certo, la grande risorsa è quella di essere presenti a se stessi, di ammettere i propri errori, di prevedere la fatica di rialzarsi e di ricominciare a camminare. Magari la scoperta di un nuovo amore.

Ma una esperienza data a taluni, decisiva, è stata descritta da Agostino negli ultimi dialoghi con sua madre: egli immagina che per l’uomo tutto taccia, la terra, il cielo, l’anima stessa e in questo silenzio egli possa udire la voce di Dio parlare non attraverso le cose, ma con la sua stessa bocca; allora non sarebbe questo l’entra nel gaudio del tuo Signore”?         

Se la scoperta della gioia di Dio, imprevedibile e duratura, irrompesse in un punto cruciale della vita, vincerebbe l’accidia di schianto: “Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori; il laccio si è spezzato e noi siamo scampati”. Resterebbe la libertà di volare.