Quando vogliamo verificare un tema in Dante, possiamo intanto rivolgerci ai suoi trattati: se quelle pagine teoriche se ne occupano, offrono indicazioni chiare, rigorose, organiche, magari con felici sviluppi, atti a catturare orizzonti ulteriori. Il nostro sondaggio risulta agevole, immediatamente proficuo, in qualche modo rassicurante, perché i conti tornano, o meglio perché Dante ha l’indubbia capacità di farli tornare. È quello che avviene con il tema della paternità. Secondo la Monarchia, il padre prepara i figli alla vita buona e al tempo stesso si fa garante dell’unità, rappresentando il punto cui gli altri membri della famiglia son chiamati ad aderire. Questa prima conclusione, relativa alla paternità in senso stretto, viene subito arricchita con il coinvolgimento di nuove prospettive. La famiglia rappresenta un livello base; inevitabile dunque partire da essa, altrettanto necessario procedere oltre. A motivo della complessità dell’esistenza umana, segnata da molteplici esigenze, si rendono necessarie risposte specifiche, e si attivano perciò livelli successivi; ebbene, in ciascuno di essi si ripropone costantemente un termine autorevole cui affidarsi. Il rapporto con l’autorevolezza rappresenta una costante della nostra esperienza, anche matura.



Come si relazionano tra loro, le diverse auctoritates? Lo aveva già indicato il Convivio, agganciando questo problema a quello, decisivo, del fine. Diverse sono dunque le attività umane, ciascuna con la propria figura di riferimento: per munirsi di una spada ci si rivolge allo spadaio, per procurarsi una sella si va dal sellaio, e così via. Ora, gli scopi di queste attività non sono slegati l’uno dall’altro, al contrario risultano solidali, in quanto mirano a uno scopo superiore: l’arte del sellaio e quella dello spadaio sono entrambe in vista dell’arte della cavalleria. Di grado in grado, si giunge così all’arte suprema che è quella conoscitiva, dal momento che l’uomo ha come fine di tutti i fini la conquista della verità. Se l’artigiano rinvia al soldato, il soldato a sua volta rinvia al filosofo, il quale detiene ben altra autorevolezza, introducendo al significato totale, almeno nei termini consentiti alla ragione umana. Come si vede, un’impostazione tipicamente aristotelica, svolta da Dante con sistematicità e preciso incastro di blocchi; fino al vertice, rappresentato dal sapere del teologo, perché l’aristotelismo dantesco vuol essere cristiano. L’edificio riesce compatto e saldo; naturalmente, la nostra sensibilità lo trova vetusto, il che non ci impedisce comunque di ammirarlo, e persino di provare una sensazione di riposo grazie a quel suo equilibrio così bene assestato.



Questa chiara forza di linee, tuttavia, nella Commedia si turba; subentrano scompensi, smagliature, vuoti, aporie, ed è su un simile terreno accidentato che delle acquisizioni si fanno luce. Non c’è stato uno spostamento concettuale, è subentrata semmai una nuova modalità di approccio. Il poema sacro non si misura con astrazioni, resta invece legato al concreto e al vissuto, senza mai appagarsi di puri rituali teorici, al contrario pronto a immergere di nuovo ogni idea nell’esperienza. A costo di assumersi tutta la ferita dell’esperienza. Facendone, il più possibile, tesoro.

Intanto, in questo poema così autobiografico, dove l’autore ha tanta parte, con le sue imprese e le sue traversie, le amarezze e le speranze, fra queste terzine così impregnate dei suoi incontri, e perciò di amici e avversari, di amori alti e amori meno nobili, nessuno spazio è fatto al padre di lui, il malnoto Alighiero, su cui il sipario non si alza mai. Lodevole discrezione, esemplare contenimento di urgenze fin troppo personali? In realtà, il silenzio su Alighiero vuol velare ciò che era emerso nella tenzone poetica di Dante stesso con Forese Donati: qui violente accuse reciproche erano corse liberamente, e Forese, per colpire più a fondo l’avversario, ne aveva delegittimato, appunto, il padre, tacciando Alighiero di una colpa infamante, l’usura. Il riserbo assoluto del poema sacro copre un’onta. Senza sconfessare, peraltro, l’appartenenza. A bestemmiare genitori e stirpe sono, nella Commedia, i dannati, i quali rifiutano la propria origine perché detestano se stessi. Quanto a Dante, egli si presenta costantemente come “figlio”. Nell’alto dei cieli, si inchina a un suo avo, a quell’antenato prestigioso che è Cacciaguida, cittadino dell’antica e sana Firenze, cavaliere per decreto dell’imperatore Corrado. Non c’è bisogno di sottolineare – è stato già fatto più volte – che Dante ha voluto risarcire il disagio per l’ombra di Alighiero ritrovando la confortante certezza di un capostipite luminoso. L’esigenza della «nobiltà di sangue» ha peraltro un’implicazione non trascurabile: per risalire a Cacciaguida bisogna pur passare per Alighiero, e le precisazioni dantesche sulla necessità di rinvigorire continuamente il sangue con la virtù personale non tolgono questo passaggio.



Vi è poi il ruolo svolto dalle guide del viaggio oltremondano. La prima, Virgilio, corrisponde all’autorità filosofica di cui aveva parlato il Convivio. Sono noti i motivi per cui il poema non ha scelto un filosofo, ad esempio l’ammirato e ascoltato Aristotele. Il fatto è che l’autorità del filosofo (lo aveva puntualizzato il Convivio stesso) resterebbe inefficace se non si alleasse con l’autorità dell’imperatore, che ne traduce le indicazioni in leggi vincolanti; ebbene, Virgilio ha esaltato in maniera impareggiabile l’Impero Romano, tocca dunque a lui essere duca, signore e maestro del tratto di cammino che conduce al Paradiso Terrestre, vale a dire alla felicità della filosofia, anche perché nella sua produzione non ha semplicemente dimostrato more geometrico principi e corollari, ma ha testimoniato da poeta, ed è una simile testimonianza, in ultima analisi, a scuotere e persuadere, tanto che Dante ne ha fatto la sua propria opzione.

Naturalmente, il Virgilio dantesco, onorando tutte le sue incombenze, si dimostrerà anche un provetto aristotelico, citerà con sicurezza le opere principali dello Stagirita. È un aspetto dell’originale riformulazione di questa figura. Non certo il solo. Nella Commedia, Virgilio viene intensificato nella dimensione affettiva: egli non è appena l’incarnazione di un paradigma stilistico e teoretico, è un vero e proprio padre, pieno di sollecitudine per Dante incerto e sbandato, ansioso di riscatto e prigioniero del suo baratro. Questa sollecitudine si traduce nella condivisione dell’avventura da correre: l’incontro tra i due, avvolto all’inizio in una semi-oscurità, si fa gradualmente storia, acquistando in questo modo un quoziente sempre maggiore di rivelazione e di intimità.

Virgilio, dunque, detta i passi e insieme asseconda il cammino, senza sottrarsi a nessuna delle asperità e delle prove, a costo di altercare con diavoli sguaiati, ridurre all’obbedienza mostri e giganti, solcare lande ghiacciate, immergersi in cortine di fuoco; è lui l’avanguardia, l’incursore, Dante si inoltra nella scia segnata. Sempre determinato il leader, spesso irresoluto e fragile il seguace, che a volte non è nemmeno in grado di mettere i piedi sulle orme che lo precedono; e allora Virgilio se lo carica sulle spalle oppure lo prende in braccio, riuscendo sia padre che madre (nella paternità, suggerisce la Commedia, dovrebbe anche vibrare un riverbero di protezione materna). Quando la meta è raggiunta, Virgilio si congratula col malfermo apprendista, finalmente irrobustito e sicuro, non più schiavo di un’immediata reattività, ma signore dei propri atti e in grado di affrontare personalmente le circostanze: «io te sovra te corono e mitrio».  Ben altro che una definitiva sentenza di assoggettamento: questo padre ha suscitato un uomo libero, che si appresta a divenire a sua volta auctor. Siamo all’apoteosi di un rapporto? Piuttosto a una frattura drammatica, perché a questo punto il «dolcissimo patre» scompare, e Dante deve misurarsi, affranto, con la fine di una consuetudine che pareva indispensabile. Ma senza l’eclissi di Virgilio non può affacciarsi Beatrice; la quale è a sua volta destinata, nel più alto dei cieli, a cedere il passo, a favorire, dileguandosi, l’avvento di Bernardo da Chiaravalle. Ogni singola figura paterna o materna viene presto o tardi sottratta, affinché la maturazione non si blocchi su una frontiera ancora insufficiente. In definitiva, il padre, mediocre o eccellente che sia, giova sempre a risalire oltre, verso un punto elevato, quel punto che è raggiunto grazie a lui e si trova più in alto di lui.

La staffetta fra Virgilio e la seconda guida è ben calibrata. Evidente, d’altra parte, un’asimmetria: Beatrice è personaggio che nasce da un incontro concreto, e anche nella sua libera riformulazione poetica mantiene questo ancoraggio, se l’identità con cui appare è appunto quella di donna conosciuta e amata da Dante; la prima guida, invece, ha un’origine di altro genere, è cavata dai libri, dall’universo della testualità. Solo da quel mondo di carta? Nella biografia dantesca, non preesiste anche per Virgilio uno spunto reale, una prefigurazione in carne e ossa? Se si trattasse esclusivamente di biografia, l’interesse della questione sarebbe relativo. Ma quell’ipotizzabile antesignano fa capolino anche lui nel poema, dove ottiene e recita una parte.

Inferno, quindicesimo canto. Una sabbia arroventata da falde di fuoco ustiona i sodomiti (e, detto tra parentesi, anche gli usurai); Dante e Virgilio la attraversano procedendo sugli argini in pietra di un ruscello, i cui vapori riparano dalle fiamme. Si materializzano alcuni sodomiti, uno di loro adocchia Dante, lo riconosce, afferra il lembo del suo mantello; ha «cotto aspetto», «viso abbrusciato», e Dante fa fatica ad attingere, in quello sfacelo, un’identità, finché non gli sfugge una domanda che è indissolubilmente sconcerto, dolore, rifiuto di una verità inaccettabile: «Siete voi qui, ser Brunetto?» Eccolo, il maestro della sua giovinezza, la figura concreta che poteva affascinarlo e infatti lo affascinò, con la ricca versatilità di esegeta dei classici, poeta in proprio, enciclopedista sostanzioso, mentore di diverse generazioni, magistrato al servizio del Comune.

Se il Virgilio della Commedia ha una premessa nello scenario esistenziale di Dante, questa premessa prende il nome di Brunetto Latini. Troppo cospicuo, un simile antefatto biografico, per rimanere esclusivamente tale, il poema doveva riservargli almeno un episodio. «Figliuol mio», dice il dannato, e Dante, che non può scendere dall’argine, va però a «capo chino», come chi si fa «reverente», e confessa che è confitta nella sua mente «la cara e buona imagine paterna» che nel mondo «ad ora ad ora» gli insegnava «come l’uom s’etterna». Per un momento, il presente sembra dissolto, ma ben presto reclama i suoi diritti: Brunetto deve allontanarsi, prende frettolosamente congedo, torna a vestire il suo profilo sconcio e goffo, dileguandosi come il corridore forsennato in testa a una gara.

Non era idoneo, il pur reputato intellettuale e politico fiorentino, al ruolo di guida nel viaggio ultraterreno: perché sodomita, e in aggiunta guelfo, e come se non bastasse prosatore in volgare francese, una scelta che il Convivio condanna aspramente. Ma si può sospettare che non pochi tratti di una suggestiva umanità riappaiano in quella di Virgilio. In ogni caso, la scena dedicata espressamente a Brunetto ha un sapore cui non si può rinunciare. Grandezza del padre, suo limite improvvisamente scoperto… Non il limite temuto e avversato dalla cultura di primo e pieno Novecento, in rotta con una furiosa arroganza, con quella pretesa asfissiante di potere che riduce il figlio al silenzio, lo stempra, lo abbatte, si sdraia su di lui, lo schiaccia.

L’episodio dantesco è in un certo senso più attuale, coglie un limite di debolezza, la fragilità di cui il padre soffre, quella sua colpa, insomma, che va a situarsi in basso e non in alto, nel cedimento piuttosto che nella tracotanza. Eppure Brunetto, con tutta la sua precarietà etica, è stato significativo per Dante, che gli rende un omaggio affettuoso, gratificandolo con lo stesso appellativo normalmente attribuito a Virgilio: «Lo mio maestro». Il riferimento, si faccia attenzione, è al dannato, non al fiorentino di un tempo, ancora garantito dal decoro, dall’esteriore rispettabilità.

La lezione di Brunetto («m’insegnavate come l’uom s’etterna») rimane incancellabile nella sua proposta di un ideale, di un obiettivo degno, e – aggiungiamo – nella continuità di un’attenzione divenuta familiarità («ad ora ad ora / m’insegnavate»). Tutto questo, il peccato non riesce a vanificarlo. Il «cotto aspetto» e l’«imagine paterna» si scontrano, si contaminano, alla fine risultano inseparabili. E il figlio si giova, per salvarsi, dell’indicazione autentica di un vizioso che in quel richiamo gli è stato padre. Inestimabile fruttificare di un insegnamento non destituito dal suo strascico di incoerenza.