Non è un segreto che tra i maestri di Benedetto XVI ci sia anche Romano Guardini. Il Papa ne ha citato brevemente un passo durante un Angelus dell’estate scorsa da Castel Gandolfo. Dapprima il pontefice ha commentato con grande chiarezza la pagina evangelica della tempesta sul lago in cui Gesù chiama san Pietro ad andargli incontro camminando sulle acque; in questo contesto ha ricordato un passaggio tratto da un piccolo libro di Guardini, intitolato Accettare se stessi.Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore è sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova. In questo opera pubblicata nel 1992 da Morcelliana sono raccolti due brevi scritti di Guardini. L’autore di fronte alla domanda più inquietante, ma anche ineluttabile che l’essere cosciente si pone, basandosi sulla concezione biblica della creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio,  afferma che solo chi ha conoscenza di Dio conosce l’uomo.



L’autore parte dall’evidenza che l’uomo è dono a se stesso e che ciò indica un compito: anche per gli antichi romani la parola munus significava i due concetti di dono e di compito. Alla radice di ogni posizione psicologica sana sta l’atto mediante il quale l’uomo accetta se stesso, acconsente ad essere quello che è, con le proprie qualità e i propri limiti. Tutto ciò può riuscire difficile quando ai limiti si aggiungono insufficienze e difetti: danni nella salute, disturbi nella struttura psichica, pesi genetici, dolori dovuti alla situazione storica e sociale. A questo punto accettarsi può diventare difficile, anzi non è possibile farlo per una via puramente etica. Occorre la fede in Qualcuno da cui si è stati voluti, la convinzione  che il proprio principio sta in Dio. Questo è l’inizio e la fine di tutta la sapienza, il rifiuto della ribellione, la fedeltà alla realtà, l’onestà e la risolutezza dell’essere se stessi, la fortezza che si rallegra dell’esistenza.



Ma dalla condizione dell’esistenza può anche nascere l’angoscia che sorge dalla precarietà e dalla vanità della vita. Guardini ha tematizzato questa condizione così diffusa nell’animo umano in un altro breve scritto, Ritratto della malinconia.

L’angoscia non è indissolubile dalla coscienza di essere, è un fatto secondario, non primario: è la conseguenza della finitezza ribelle, mentre crescere come uomini significa esistere nel coraggio e nella fiducia di chi sa che i propri limiti non sono connessi al vuoto.

A questo punto l’autore riflette sul fenomeno del pentimento, che ritiene una delle forme più potenti della nostra libertà. Esso non può far sì che l’accaduto non sia accaduto, ma può generare un comportamento nuovo. Ogni attimo della nostra vita è riformabile e il pentimento, ben lontano dall’essere disperazione, apre alla riscoperta del rispetto che l’uomo deve a se stesso. Dio vuole che l’uomo viva, e viva in pienezza, e la fortezza dell’accettazione di sé significa al tempo stesso fiducia in questa volontà paterna. L’esistenza allora vive sorretta dalla coscienza che Dio guida la nostra vita. A questo punto può sorgere con cautela e umiltà la domanda: chi è Lui, e come è? Tenendo conto del male che nasconde l’agire di Dio, l’interrogativo è esatto e in esso si può compiere la comprensione di Dio a partire dalla conoscenza dell’uomo e viceversa.