In una società nella quale cresce la religiosità e la ricerca di vaga spiritualità e nella stessa proporzione tende ad attenuarsi la fede nella sua matrice cristiana, cambia l’etica che da quella fede per secoli ha tratto le sue evidenze e le sue ragioni e cambia, di rimbalzo, il nesso tra l’etica e il diritto.
In questo quadro in movimento, di fronte ad un’emergenza di ordine pratico (superaffollamento delle carceri), ma non solo, il ventaglio delle posizioni è assai variegato. C’è chi, in nome della “sicurezza” chiede una maggior severità nell’applicazione delle sanzioni penali, a chi auspica una revisione, in senso antipenale, di tutto l’organismo carcerario.
Una società nella quale è presente un’etica comune, che trae i suoi principi da un’antropologia illuminata da una fede comune, è presente altresì una sensibilità morale e intellettuale che le consente, come a un corpo vivo, di avvertire quel che contraddice il vero e il bene e di studiare una risposta ad ogni attentato ad essi, sia nel senso della difesa, sia in quello, ancor più decisivo, della riproposizione, della rigenerazione propositiva. Qui al centro non c’è la “sicurezza”, quanto il vero bene, non c’è l’istinto di mera autoconservazione, quanto l’affermazione della trascendenza di ciò che dà vita sia alla persona che alla comunità.
Venendo tendenzialmente meno questa organicità sociale e la correlativa vitalità dei tessuti, nella nostra società attuale, quel che è potenzialmente deleterio non viene ordinariamente riconosciuto e tematizzato prima di essere ingerito, ma solo quando il processo metabolico è già in stato avanzato. Detto in altri termini: solo quando determinati fatti oltrepassano una certa soglia, che empiricamente viene riconosciuta come destabilizzante l’ordine pubblico, si ritiene di dover prendere provvedimenti.
Facciamo un esempio: la scomposizione dell’unità stabile di uomo e donna che chiamiamo “famiglia” è supportata legalmente. Quando da quella scomposizione proviene una prole che crea sistematicamente disagi sociali evidenti e ripetuti, allora si ritiene di dover adottare delle contromisure che si appuntano sugli effetti, senza però mettere in questione le cause. Potremmo dire che la soglia critica che viene rilevata è quella in cui l’io individuale si dimostra, in un modo o nell’altro, pericoloso per la società.
Qui si manifesta una riduzione, che era già presente prima, ma che solo ora produce effetti per i quali l’organismo sociale possiede sensori capaci di percezione. C’è una impersonalità che riduce il soggetto a individuo colpevole e passibile di pena e, al contempo, toglie alla società il suo tratto di verità e di bene per ridurla a parte lesa che non può tollerare oltre il danno arrecatole.
Perché questa riduzione, che rende irriconoscibile da un lato il «bene comune» che è presente in una società di persone agli occhi dell’imputato, e dall’altro il carattere di «persona» portatrice di una dignità intangibile agli occhi della società?
Tra l’«io» e il «noi», tra la persona e la società c’è l’«io-tu», c’è la comunità. È la dimensione comunitaria quella che interviene geneticamente e costruttivamente rispetto alla identità personale. E proprio in virtù di questa coessenzialità nella quale l’io prende forma, che esso viene normalmente introdotto alla più grande dimensione sociale. Ma in una società nella quale la dimensione «io-tu», la dimensione comunionale non è più viva, l’io perviene, non di rado, non all’incontro – impossibile senza quella mediazione e quell’esperienza archetipica – ma allo scontro con la società.
Se da questo quadro macroscopico torniamo alla questione di come possa e debba essere intesa la pena in senso non solo retributivo, ma anche propositivo e ricostitutivo, dobbiamo riconoscere che, se il vulnus, la ferita si è prodotta sul piano della relazione della persona con le persone (famiglia, comunità), la sanazione non potrà venire dalla società, seppur attraverso mediazioni professionali (psicologi, operatori sociali, etc.), cioè, da una “struttura”, ma da una comunità reale, cioè, da persone che da un lato si relazionano in quanto persone con la persona, ma che, dall’altro, non sono né strumenti di un organismo tutto sommato impersonale, né soggetti isolati che atomicamente si rivolgono ad un altro atomo. Senza la dimensione personale è impossibile ridinamizzare le dinamiche personali dell’altro, senza una vera dimensione comunitaria l’altro non può fare esperienza di una società “piccola” come dimensioni, ma reale nella sua entità, che possa aprirlo alla fiducia anche alla “grande” società nel suo insieme.
In ogni reato è presente uno squilibrio che mette a repentaglio in un colpo solo sia la verità dell’essere personale sia la verità della relazione delle persone. È illusorio immaginare un procedimento di ripresa solo su una delle due linee separatamente dall’altra.
Il segreto della riuscita di tentativi già in atto in questo settore risiede proprio nella potenza comunicativa e nella credibilità che nasce dalla qualità della relazione che vivono le persone che in essi sono coinvolti.
Qualora si intenda ripensare il sistema penale sarà necessario tener ferma la «dignità della persona» di cui parla la Costituzione italiana, ma non trascurando due fattori determinanti la realtà della persona: il fatto che essa è teologicamente fondata e il fatto che la persona vive e cresce nella comunione delle persone. Una ricerca di un percorso che abbia come fine primario la “risocializzazione” e si serva di “strutture sociali”, non perverrà allo scopo, a motivo del difetto di partenza: la sovrapposizione di società e comunità.
È chiaro che il senso soggettivo della pena non è disgiungibile dal senso che la società intera le attribuisce e quindi dalla offerta di senso e di sbocco che, nelle sue determinazioni concrete, è in grado di presentare. Ma la percorribilità è resa possibile dalla verità della relazione.
In questione non è la pena, ma l’uomo, e la domanda di fondo verte su quel che può far rinascere l’uomo nell’uomo. Anche qui è centrale il realismo della Nascita.