Non fatevi scappare questa mostra, organizzata dal Musa di Sondrio (Museo valtellinese di Storia e arte). Perché è qualcosa di più di una semplice mostra: è una scoperta emozionante e a tratti commovente di un pezzo di storia collettiva su cui, senza esplicite ragioni, era calata un’ermetica dimenticanza. La scoperta è partita oltre dieci anni fa dal ritrovamento nei sottotetti di una chiesa di Mazzo Valtellina di una statua di una Madonna completata nel volto e nelle mani, e per il resto intagliata sommariamente. Merito di Francesca Bormetti, la studiosa che con passione e determinazione davvero esemplari, è riuscita in anni di perlustrazioni del territorio e di studi a ricostruire la storia di cui quel “torsolo” era il primo segno riemerso. Evidente che in quelle condizioni la statua non poteva essere esposta su un altare. Qualcosa mancava: mancava il vestito con cui veniva tradizionalmente agghindata, che la Bormetti ritrovò ancora perfettamente ripiegato in uno dei mobili della sagrestia. Stava lì, inutilizzato probabilmente da un paio di secoli, da quando cioè la chiesa, sotto pressione per l’ondata giacobina, aveva suggerito ai parroci di disincentivare quella antica tradizione di vestire le statue, a seconda delle occasioni, da mettere sugli altari o da portare in processione. Nessuna demonizzazione né tanto meno scomuniche, semplicemente una scelta di opportunità che a volte ha avuto gli aspetti di una vera repressione come ricostruisce nel catalogo Saverio Xeres e che poco alla volta ha portato all’esaurirsi e all’oblio di una tradizione secolare.
La tradizione non riguardava solo la Valtellina (dove la Bormetti ne ha censite ben 85, per la metà ancora esistenti), ma era molto diffusa anche nella Bergamasca e in alcune zone del centro Italia: non dimentichiamoci che sono vestite le statue delle più antiche cappelle del Sacro Monte di Varallo, in particolare quella dell’Annunciazione, capolavoro di Gaudenzio Ferrari. È una tradizione che aveva fatto leva anche su grandi botteghe di scultori attive nelle valli alpine: proprio nelle sale del museo che oggi ospita la mostra si può vedere il bellissimo Compianto di Caspiano, datato fine 1400, restaurato da poco e attribuito a uno dei De Donati.
L’arco di tempo che la mostra percorre va dagli inizi del 1500 della Santa Lucia di Valdisotto sino a tutto il ’700, segnato dalla presenza della grande scuola bergamasca dei Fantoni: a volte le opere sono state ricostituite nella loro unità di scultura e di vestito prezioso. In alcuni casi invece sono stati presentati solo questi manichini tutti snodati che fioriscono di bellezza nella finitura del volto o delle mani. Sono manufatti semplici e funzionali, perché dovevano adattarsi alle varie occasioni liturgiche (per ognuna c’era un vestito diverso offerto dalla comunità). Ma vederle nella loro “nudità” è aspetto che commuove. Innanzitutto perché ancora rendono l’idea di quell’intimità quasi fisica tra i fedeli e i loro santi. In secondo luogo perché testimoniano anche quel pudore con cui le persone incaricate della vestizione delle statue – nella stragrande maggioranza si tratta di Madonne – svolgevano il loro compito. Infatti gran parte delle opere, sotto gli abiti sono grezze ma sono comunque coperte con delicatezza da umili sottovesti, a volte un semplice e scabro bustino in tela grezza, allacciato sul retro con allacciatura incrociata. Elementi non necessari, che però rendono ancora più familiari e amiche quella presenze.
La mostra di Sondrio è frutto di una eccellente ed esemplare operazione di filologia, che incrocia tante competenze – storia dell’arte, storia del territorio, conoscenza dei tessuti, antropologia – ma alla fine è capace di una sintesi che recupera in pieno e fa rivivere lo spirito che aveva fatto essere quelle statue. È una situazione rara, per chi è abituato a frequentare mostre come il sottoscritto: la scientificità dell’impianto (ben documentata dal catalogo) va di pari passo con una dimensione di partecipazione, che rende giustizia della qualità di tante di queste opere e le strappa a una riduzione folkloristica. Merito anche della stupenda campagna fotografica realizzata da Massimo Mandelli, che con le immagini ha ridato vita pulsante a statue la cui funzione sembrava del tutto esaurita. Per tutti questi motivi la mostra ospitata nelle sale del Musa (e in quelle contigue della Galleria del Credito Valtellinese), è una mostra davvero viva. C’è tempo sino al 26 febbraio per non farsi scappare l’occasione.
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