Ancora una volta nei pensieri di Benedetto XVI ci sono i giovani. Il Papa lo ha detto nel suo Messaggio per la XLV Giornata Mondiale della Pace, dedicato all’educazione. E ieri il Pontefice è tornato sulla questione, sull’urgenza di educare i giovani «di fronte alle ombre che oggi oscurano l’orizzonte del mondo». Non c’è nulla di clericale, nel messaggio di Benedetto XVI, percorso da un afflato profondamente umano, laico, pagine che tutti gli educatori dovrebbero leggere.
Succeduto a Tadeus Kondrusiewicz nel 2007, monsignor Paolo Pezzi è arcivescovo metropolita di Mosca. Governa una diocesi grande diverse volte l’Italia. Il nostro errore? Crediamo già di sapere, dice mons. Pezzi. «Non pensiamo più alla scoperta di un ideale che fa maturare la persona. Probabilmente pensiamo invece ad una serie di principi; un “già saputo” che deve in qualche modo essere trasmesso più o meno forzatamente ad altri».



Eccellenza, il periodo che viviamo – dice il Papa nel suo Messaggio – è segnato da una crisi «le cui radici sono innanzitutto culturali e antropologiche». Lei cosa può dire dal suo particolare punto di vista?

In un suo recente intervento alla Plenaria del Pontificio consiglio per i laici (25 novembre 2011, ndr) Benedetto XVI ha parlato dell’assenza di Dio e della necessità che la domanda su Dio torni ad essere la domanda principale dell’uomo, «la questione delle questioni». A me pare che sia questo il punto decisivo anche per noi che viviamo nella società russa che certamente si differenzia da quella europea e che appare ancora oggi segnata da un anelito maggiore alla religiosità.



Crisi di valori, dunque?

Crisi del rapporto con Dio. Abbiamo il timore di dare a questo rapporto il primo posto, in termini reali, nella nostra vita.

Citando Agostino il Papa dice che l’uomo desidera la verità più di ogni altra cosa. E ancora, che «il volto umano di una società dipende molto dal contributo a mantenere viva tale insopprimibile domanda». È il compito dell’educazione, che costituisce il tema centrale del discorso. Come si pone la comunità dei credenti di fronte a questa sfida?

Penso innanzitutto che il primo aspetto sia quello di lasciarsi ferire, toccare da questa provocazione reale. Perché vede, che l’educazione sia innanzitutto un’avventura – «l’avventura più affascinante» oltre che difficile della vita, per usare le parole del Papa – non è affatto scontato. Ritengo infatti che all’interno della comunità ecclesiale e della stessa comunità civile, vigano altre immagini di educazione. Non pensiamo più ad una introduzione alla realtà, alla scoperta di un ideale che fa maturare la persona. Probabilmente pensiamo invece ad una serie di principi; importanti, giusti, positivamente indirizzati per il bene della persona e della società. Un «già saputo» che deve in qualche modo essere trasmesso più o meno forzatamente ad altri.



E invece?

Invece Benedetto XVI parla di qualcosa di radicalmente differente da questa immagine, che è in fondo è dettata dall’ideologia propria di chi pensa già di sapere. Questo a mio parere è il primo aspetto da scalfire, perché il rapporto educativo è drammatico, è il dramma di due libertà. Ciò significa che il mio tentativo di educazione deve innanzitutto tenere viva quell’«insopprimibile domanda». Sta qui il cambiamento di prospettiva: non si tratta di comunicare principi che facciano andare avanti in un certo qual modo l’uomo e la società, ma di sostenere una domanda dell’uomo che ultimamente è affermazione di Dio. Sta qui la possibilità per l’uomo – accompagnato da chi è coinvolto con lui nel processo educativo – di diventare sempre più se stesso. Questo cambiamento, possiamo esserne certi, non mancherà di portare un contributo notevole alla stessa società.

Alla luce di quello che dice esiste una missione comune della Chiesa cattolica e di quella ortodossa nella sfera pubblica?

Assolutamente sì. Ritrovo questa missione comune in ciò che il Papa dice dell’educazione alla verità, alla libertà, alla giustizia e alla pace: affermare senza sosta che l’uomo è fatto per la trascendenza. Non è il sostegno ad una ipotesi vaga, ma la comunicazione di un Evento che ha cambiato la storia e la nostra vita e che celebriamo in questi giorni: il santo Natale. Questo evento ha educato la vita di un popolo ad attendere Dio («tale attesa nasce dall’esperienza del popolo eletto»), salvezza definitiva. Questa fede è comune a noi e agli ortodossi e giocarla nell’educazione è qualcosa che possiamo fare insieme. Cosa voglia dire in pratica è da vedere; certo sarebbe sbagliato votarsi all’azione in modo semplicistico, senza partire da una coscienza comune.

Parlando di educazione lei non sembra riferirsi alla trasmissione della fede cristiana in senso stretto, quanto ad una percezione «affettiva» della vita. È così?

Sì. L’educazione – e l’educazione alla fede – oggi non è un problema di esatte nozioni, quanto di tenere vivo il rapporto «affettivo» principale della nostra vita, il legame con Dio. Questo legame, abbracciato con tutto il cuore, è la libertà come fattore dell’educazione di cui parla Benedetto XVI nel suo Messaggio. Solo se c’è questo «affetto» – e riprendo ciò che il Papa ha detto alla Plenaria del Pontificio consiglio per i laici – Dio diviene criterio dei miei pensieri, delle mie azioni, del mio essere nella politica, nell’economia, nella comunità cristiana.

Una sfida per l’ossequio formale alla tradizione, o per la «custodia della forma esteriore dell’identità» che è stata tipica del’ortodossia in Russia e della fede cattolica in Occidente?

Non vedo tanto questo aspetto di sfida. Tengo a dire, a questo proposito, che la difesa di una forma non necessariamente coincide con una formalità – alla quale anzi potrebbe toccare proprio la difesa ultima di un contenuto. Il punto cruciale a mio avviso è ciò che il Papa dice a proposito del testimone, cioè dell’educatore: che deve vivere in prima persona, lui innanzitutto, quello che trasmette. Se così è, ciò che egli dice e trasmette non potrà che essere un contenuto vivo. Vale anche per una verità di fede: che resta come tale, ma che viene trasmessa come contenuto di un’esperienza esistenzialmente vissuta. In questo caso la forma non sarà più ciò che salvaguarda la definizione nella sua oggettività, ma il veicolo – per usare una metafora, l’automobile rombante – attraverso cui questo contenuto viene trasmesso. Perciò anche difendere la forma può diventare, come lo è stato per la Chiesa sotto il passato regime e come lo è oggi sotto i regimi in altri Paesi, un modo attraverso cui poter trasmettere un avvenimento vivo capace di educare. Non dimentichiamo che la liturgia è il primo luogo e anche forse il luogo più semplice di educazione al rapporto e al legame con Dio.

«La città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri ma anche da relazioni di gratuità, misericordia e comunione». Come legge questo passaggio alla luce del particolare travaglio che la società russa sta vivendo oggi?

Anch’io ne sono rimasto toccato. È per noi l’esortazione ad avere la semplicità di cuore per lasciare che queste espressioni – gratuità, misericordia e comunione – definiscano una modalità nuova nei  rapporti tra le persone. È esperienza di tutti, infatti, che quando la carità irrompe nei rapporti basati su una riduzione della nostra umanità, li cambia e il nostro io rinasce. Sentiamo il nostro essere palpitare nuovamente. Questo cambiamento è la vera risposta alla tentazione di demandare ad un cambiamento politico ciò che può solo spettare ad un cambiamento personale.

Quale compito ci attende?

Il Papa, con una grande concretezza, ha concluso il suo Messaggio tornando a quello che aveva detto all’inizio. Se siamo rapporto con Dio, allora ciò che ci è chiesto è alzare continuamente lo sguardo a Lui. Dalla Chiesa viene l’aiuto più grande, materno, a questo compito.

 

(Federico Ferraù)