La progressiva oggettivazione dell’Io e di ogni rappresentazione del soggetto di fronte al mondo, e la progressiva riduzione delle relazioni fra i comportamenti individuali a pure connessioni funzionali, definibili secondo sequenze automatiche, ha lentamente portato all’assorbimento della realtà e delle pratiche effettive degli esseri umani dentro la sfera di un mondo semivirtuale.
La perdita del mondo come realtà che ci sta di fronte, sia pure attraverso le mille relazioni significative tra oggetti e persone, tocca essenzialmente il rapporto tra l’uomo e la natura. Poiché tale rapporto sta alla base di quella che siamo soliti chiamare economia, è proprio alle trasformazioni del modo di produrre e consumare che bisogna guardare per cercare di capire il rapporto tra la nostra vita materiale e la rappresentazione della società come un flusso liquido e come una somma di paure e di isolamenti individuali.
L’economia rappresenta infatti il modo in cui l’uomo entra in rapporto con la natura per realizzare, attraverso al sua “utilizzazione”, la riproduzione di se stesso e del proprio gruppo sociale. Se produzione e riproduzione del gruppo sociale sono le basi elementari di ogni costituzione di società, è evidente che le modalità in cui si realizza la produzione e la riproduzione sono decisive per capire il senso di ciò che accade in ogni epoca della nostra storia. Non si vuol dire con questo che l’economia ha un primato assoluto nella configurazione delle persone e del loro mondo giacché, se non si rappresenta l’economia come una pura appropriazione della natura, ci si rende conto che in essa è implicata una forma di vita, una gerarchia di valori e l’intero processo sociale complessivo.
Ciò che è accaduto in questi ultimi decenni, che pone in modo inedito i problemi relativi all’identità dell’individuo e del gruppo al quale appartiene, è una totale trasformazione del rapporto tra economia e società fino al totale assorbimento della vita delle persone nella sfera della produzione e del consumo.
Pensiamo alla vita. Non era mai accaduto, come ha sottolineato Sara Ongaro in un libretto di alcuni anni fa sulle donne nella globalizzazione, che la stessa creazione della vita, la fecondazione e la procreazione diventassero un affare economico che fa ormai parte della contabilità come qualsiasi altra produzione di merci. La nascita di nuovi esseri umani, trasformata in parte integrante del ciclo di valorizzazione del capitale, costituisce il punto estremo di assorbimento della nostra esperienza e vita individuale nei paradigmi del funzionamento dell’economia capitalistica.
In questo esempio estremo si vede come il modo di produrre e consumare capitalistico sia penetrato in modo molecolare nella vita quotidiana e abbia determinato contestualmente una estraniazione della realtà concreta delle persone e degli affetti rispetto a ciò che essi continuano a provare nelle condizioni della quotidianità, apparentemente spontanea, dei rapporti umani.
L’assoluta novità della fase che stiamo vivendo risiede appunto in una totale estraniazione delle pratiche affettive (che strutturano ancora la vita concreta) dal paradigma astratto dei modi di funzionamento del capitale e del denaro, che appaiono sempre più gli unici ordinatori di una realtà che non sembra consentire distinzioni fra sfere diverse: la sfera degli affetti e delle relazioni tra le persone, e la sfera della produzione e circolazione delle merci e del denaro.
Che la procreazione possa diventare un processo economico, composto da banche di ovuli e gameti, di strutture sanitarie che gestiscono le inseminazioni, e di investimenti sulla ricerca e sull’innovazione, è certamente un salto di qualità nell’immaginario collettivo di eventi tradizionalmente avvolti nel mistero come il concepimento e la nascita.
Similmente, nell’organizzazione del lavoro della grande fabbrica fordista (si pensi alla Fiat degli anni sessanta con migliaia e migliaia di operai), i tempi di lavoro e le mansioni erano definiti e lineari, e la realtà della fabbrica, rappresentata dalla catena di montaggio, costituiva uno spazio opaco tra il luogo della produzione e i luoghi esterni della commercializzazione e della formazione della domanda sociale di merci. Questa relativa opacità del luogo di produzione dagli altri luoghi sociali consentiva una relativa autonomia del lavoro produttivo rispetto alla vita dell’operaio e rispetto all’intera società che elaborava i propri bisogni da soddisfare al mercato delle merci.
Oggi invece la fabbrica si configura come un luogo di lettura e utilizzazione di informazioni provenienti dall’esterno (dai lettori ottici dei grandi punti vendita all’uso di carte di credito che censiscono i gusti del consumatore-utente, ecc.) e l’insieme dei flussi informativi che attraversano la società entrano direttamente in produzione. Le nuove tecnologie informatiche incidono direttamente sul modo di lavorare di qualunque lavoratore di una moderna azienda che deve essere in grado di espletare tutte le funzioni necessarie alla produzione in tempo reale, just in time.
L’azienda si riorganizza secondo un sistema a rete che tende a tagliare drasticamente i costi del lavoro e ad occupare soltanto lavoro flessibile e precario. Al posto dell’operaio della catena tende a subentrare un lavoratore polivalente in grado di comunicare continuamente con tutto ciò che si trova fuori dalla sua attività e relazionandosi così attraverso la comunicazione con l’intero mondo esterno e in particolare con il cliente consumatore. La condizione del lavoratore diventa un continuo spaesamento che ne modifica profondamente i connotati culturali per renderlo sempre più disponibile alla connessione dei flussi informativi che interagiscono direttamente con la propria attività lavorativa.
Oggi la vita concreta del lavoratore e l’insieme del contesto sociale nel quale sembra iscriversi sono diventati astratti. Il lavoro manuale è diventato anche lavoro cognitivo, e cioè basato sul saper utilizzare le informazioni ed arricchirle persino con la propria intelligenza, ma tutto ciò si svolge in una autoreferenzialità della produzione capitalistica che non sembra incontrare più alcun luogo opaco rispetto alla sua penetrazione. L’intera società è diventata un flusso di informazioni utilizzabili per produrre incrementi di valore monetario che non hanno alcun rapporto con le reali condizioni di vita.
La fine dell’impresa fordista e la smaterializzazione dei fattori produttivi tradizionali (il cosiddetto capitale fisso), inaugura l’epoca della finanziarizzazione, l’epoca cioè in cui il capitale adotta strategie di valorizzazione di se stesso occupando interamente la sfera della circolazione e dello scambio delle merci, e della stessa riproduzione della forza lavoro, uomini e donne. La finanziarizzazione dell’economia contemporanea consente al capitale di disinvestire dai salari degli operai e dal capitale direttamente produttivo a favore di una produzione di ricchezza a mezzo di denaro, dirottando cioè i profitti sul mercato finanziario a scapito della creazione di occupazione e della domanda di salario. Il capitalismo finanziario proprio in questa fase sembra trasformarsi in quello che è stato definito “biocapitalismo”, o “capitalismo cognitivo”. Esso non investe più in salari e in macchine di produzione ma nella costruzione di meccanismi finanziari che permettono di rendere la creazione di rendite finanziarie sempre più indipendenti dall’economia reale. Il profitto che si realizza all’esterno della sfera produttiva tende infatti a diventare rendita.
Naturalmente su questo tema del rapporto tra rendita e profitto occorrerebbe un approfondimento ulteriore. Ciò che invece mi interessa sottolineare in questa sede è come le trasformazioni del lavoro e della produzione realizzino un effetto di evaporazione della realtà, cioè di scomparsa della sfera delle pratiche affettive attraverso cui le donne e gli uomini entrano in rapporto. Proprio questo livello di astrazione estremo è alla base delle crisi che si stanno producendo a ritmo sempre più accelerato sia nella vita quotidiana sia nella vita degli Stati nazionali. Più la vita concreta degli esseri umani viene pervasa dalla logica strumentale della produzione di denaro a mezzo di denaro, più le persone concrete sono svuotate di ogni capacità di comprensione e di ogni autonomia nella ricerca del senso della propria esistenza.
Attraverso il controllo dell’intero ciclo economico, la maggior parte dei bisogni umani appare oggi prodotta e quasi imposta dal funzionamento dell’intero sistema mediatico che determina la stessa forma dei desideri e dei bisogni. Si pensi al fenomeno delle mode che spingono intere masse all’acquisto e al consumo di beni privi di qualsiasi qualità e utilità. L’intera società viene cioè estraniata dal processo primario di rappresentazione ed elaborazione dei propri bisogni, che non sono più il frutto di un’autonoma e consapevole rappresentazione del rapporto fra se stessi e il mondo, ma sono invece eterodiretti ed eteroformati dalla macchina produttiva di ricchezza monetaria.
L’astrazione dalla concreta esperienza della vita di ciascuno dal proprio contesto pratico-affettivo si risolve in questo caso in una alienazione totale. È questa alienazione che oggi emerge drammaticamente nelle condizioni della crisi che stiamo attraversando, che non è appunto soltanto una crisi economica, ma la crisi, come abbiamo orami spiegato tante volte, di una intera forma di vita.