Nell’imminenza della 12ma Giornata della Memoria è necessario chiedersi il senso di ciò che andremo a celebrare. Non perché ci siano dubbi sull’opportunità di tale gesto (la Shoah è un evento unico nella sua tragicità e non si può non biasimare chi approfitta del 27 gennaio per parlare di altro, dimenticando che in un anno ci sono altri 364 giorni per farlo…). Il problema è che la memoria è un “animale” infìdo, soprattutto quando viene istituzionalizzata. Il rischio di una banalizzazione strumentale (acquistare a buon mercato una buona coscienza nella condanna dei cattivi) o quello di una catarsi meramente emotiva di fronte a una toccante testimonianza o a un bel film sono sempre presenti.
La riduzione dei rischi suddetti implica un lavoro, quello della conoscenza storica. Ogni cerimonia dovrebbe essere accompagnata da un lavoro storiografico capace di ricostruire gli eventi nella loro complessità e di evitare ogni facile manicheismo. D’altra parte anche la storia presenta i suoi rischi. Se infatti la memoria sviluppa l’identificazione empatica con le vittime (e ciò è indispensabile ai fini dell’apprendimento), la storia, lavorando nella prospettiva di una comprensione degli avvenimenti, confina pericolosamente con la giustificazione. È un rischio inevitabile, se si vuole che la memoria non si riduca a un esercizio petulante di denuncia del male che prima o poi stanca.
Ma il rischio più grande è quello di una memoria ossessiva, di una memoria – come dice Paul Ricoeur – ossessionata da un passato che non vuol passare, fatto soprattutto di ingiustizie subìte (vere o presunte che siano). Una memoria siffatta è facilmente preda di manipolazioni ideologiche al servizio della costruzione di un’identità collettiva che si definisce polemicamente rispetto agli “altri” attraverso un eccesso di commemorazione che mira alla creazione di idoli e di nemici, di eroi e di anti-eroi. La storia della Germania pre-nazista è da questo punto di vista paradigmatica, ma nessun popolo s’è dimostrato immune da questa tentazione.
La condizione perché il 27 gennaio non sia un inutile, se non dannoso, esercizio retorico è che si parta da una ferita (e se non c’è è meglio rimanere a casa o in classe). Ciò che i carnefici hanno intaccato è la carne e lo spirito delle vittime, l’esistenza stessa di un popolo e, più in generale, la fiducia e la speranza di tutti gli esseri umani. Da Auschwitz non si torna indietro.
Siamo coscienti che non solo le vittime, ma anche i carnefici erano, nella loro maggioranza, uomini come noi, “normali” padri di famiglia che volevano bene ai propri cari? Questo pensiero è letteralmente insopportabile. O lo cancelliamo (oblìo) oppure rigettiamo il male che è in noi su nemici veri o immaginari (e allora ecco il moralismo forcaiolo di destra e di sinistra che occupa il dibattito pubblico odierno).
L’alternativa, l’unica veramente umana, ci è indicata dalle vittime stesse. “Basta che esista una sola persona degna di questo nome per poter credere negli uomini”. Così si esprime nel 1941 l’ebrea olandese Etty Hillesum, destinata alla morte ad Auschwitz. Etty era convinta che se avesse incontrato un tedesco buono la sua fiducia nell’umanità si sarebbe rinfocolata. Tale aforisma rivela la dinamica più profonda della memoria, la quale può sfuggire alla duplice tentazione dell’oblìo e del risentimento solo se un evento presente è capace di suscitare il ricordo della felicità passata e la speranza di un suo rinnovamento. In altre parole, l’esperienza della bontà si rivela come condizione necessaria di una memoria felice.
Non credo ci sia nulla di più responsabilizzante per noi di questo pensiero.