1973, una data storica per la Russia, anche se il mondo non se n’è accorto, e neppure la Russia. A svelarci l’importanza di questa data è stato Vladimir Bibichin, noto studioso scomparso qualche anno fa, docente universitario, animatore del samizdat, convinto ortodosso, pensatore profondo che ho avuto la grazia di conoscere personalmente in Russia.



Nel 1973, infatti, per la prima volta – sia pure «ad uso interno», come ha dettagliato Bibichin in un articolo apparso sul numero 2/2011 de La Nuova Europa – i rappresentanti del potere sovietico, partito, esercito e Kgb esplicitarono la convinzione che l’ideologia comunista era morta e quindi non era più in grado di essere una base convincente per il potere. Da questa persuasione nasceva l’esigenza di trovare una nuova ideologia, sostitutiva alla defunta ideologia marxista-leninista.



Questa convinzione dell’inconsistenza della dottrina comunista si stava consolidando, sia in basso che in alto, fin dai tempi di Chrušcev. Fu lui probabilmente l’ultimo dei grandi capi comunisti a credere nel comunismo, e la sua fede ingenua e calcolata al tempo stesso, più che contribuire a far rifiorire la speranza servì a diffondere ulteriormente lo scetticismo. Il proclama del XXI Congresso terminava con le fatidiche parole: «Il partito proclama solennemente che l’attuale generazione vivrà nella società comunista». In realtà, lo slogan «Il comunismo è all’orizzonte» servì più a dare la stura a barzellette che a convincere il popolo.



Come documenta Bibichin, è chiaro che anche agli occhi dei dirigenti la vecchia ideologia aveva perso ogni possibilità di rinnovamento, ma la nomenklatura rimaneva completamente al buio rispetto alla direzione in cui camminare per trovare una soluzione adeguata ai tempi nuovi. Una delle opzioni possibili che i dirigenti erano disposti a proporre come alternativa era un’ortodossia naturalmente addomesticata e manipolata secondo le necessità del potere, e tale proposta religiosa guadagnò terreno soprattutto negli anni ottanta.

In generale, l’operazione di ricerca della nuova «base ideologica» si mostrò complessa, faticosa, contraddittoria fin da principio. Furono addirittura coinvolti rappresentanti dell’intelligencija libera, indipendente, «catturati» dalla possibilità di avere accesso a fondi bibliotecari segreti, e illusi di poter in qualche modo contribuire al rinnovamento intellettuale del Paese.
In realtà, il partito non intendeva rinunciare al suo abituale controllo: la libertà dei ricercatori era limitata, spesso addirittura sorgeva nei singoli una sorta di «censore interno», preoccupato di non creare contrasti, di non spingersi oltre limiti evanescenti ma estremamente reali. Se veniva ad esistere una maggior libertà, era pur sempre una libertà vigilata. D’altra parte una nuova concezione del mondo, sia pure una nuova ideologia, non può nascere su direttiva del partito, anche ben intenzionata.
Una nuova dottrina nasce da un vita nuova, sebbene indubbiamente anche questa iniziativa abbia contribuito ad aprire ambiti di libertà,  a far respirare (sia pur in ambienti ristretti) aria più sana. Dal 1987 l’esperimento muore di morte naturale.