«C’è un fatto fondamentale che non viene sottolineato a sufficienza, e cioè che Buzzati era uno spirito profondamente religioso. ma pochi hanno capito la sua profondità. E parlo anche di persone a lui vicine, molto vicine». Così Fausto Gianfranceschi, scrittore e giornalista, autore della prima biografia italiana di Dino Buzzati, uscita nel 1967 dunque prima della scomparsa di Buzzati, che si spense a Milano il 28 gennaio 1972. Di lui Gianfranceschi conserva un ricordo vivissimo, anche se il contatto si limitò al lavoro sul libro. Di Buzzati è appena uscita in libreria, per i tipi di Mondadori, una nuova edizione de «I miracoli di Val Morel», ultima opera dell’autore bellunese, che non fece in tempo a presentarla al pubblico. C’è tutto il Buzzati pittore, ne «I miracoli di Val Morel», che non può mai essere disgiunto dal poeta e dal narratore. Poeta? Sì, perché secondo Gianfranceschi Buzzati era poeta nel profondo.
Nei «Miracoli» c’è tutta l’ansia di mistero di chi spera in qualcosa che, alla fine, faccia quel che noi uomini, da soli, non possiamo. 39 raffigurazioni, ex voto per altrettanti miracoli compiuti dalla santa – appunto – dei miracoli «impossibili», santa Rita da Cascia. «Il suo lavoro più rivolto al cielo – dice Gianfranceschi – proprio nel momento in cui più avvertiva l’avvicinarsi della morte».



Dino Buzzati non fece in tempo a vedere la pubblicazione del suo «I miracoli di Val Morel». Possono essere considerati il suo testamento spirituale?

Sì. C’è un fatto fondamentale che non viene a sufficienza sottolineato, e cioè che Buzzati era uno spirito religioso. considerarlo ateo è un errore. Pensiamo ai marziani del racconto «Il disco si posò», con il prete che preferisce la condizione di peccato a quella dei marziani che il male non conoscono e per questo possono fare a meno di Cristo. «I miracoli di Val Morel» sono una conferma: un’opera straordinaria dedicata a quella poetica religiosa che sono gli ex voto. Il suo lavoro più rivolto al cielo, proprio nel momento in cui più avvertiva l’avvicinarsi della morte.



Che cos’è il disegno per Buzzati?

Una maniera di fare letteratura con altri mezzi. Tutti i suoi disegni hanno nel profondo un pensiero evidente. Pensiamo per esempio a Piazza del Duomo di Milano (1958, ndr). A mio modo di vedere è pervasa dall’idea della distruzione, del logorio, della fine. Nel dipinto di Buzzati c’è sempre un’idea metafisica, un mistero che si offre in forma grafica anziché narrativa. C’è la realtà trasfigurata, la solitudine, l’altrove. È questo un tratto comune a tutte le sue opere.

Il Duomo – per rimanere all’opera che lei ha citato – prende la forma di una cattedrale di roccia chiara. Conoscendo l’origine dell’autore, si può dire che sono evidentemente guglie dolomitiche. La presenza della montagna in Buzzati è casuale?



Buzzati era veneto, di Belluno, e profondamente attaccato alla sua terra. Durante la sua vita tornava di continuo alle montagne amate, e i suoi monti rappresentano per lui un simbolo celeste. D’altra parte, la vetta, nell’arte, è sempre rappresentazione di spiritualità.

Buzzati fu estraneo ad ogni gruppo o scuola letteraria. Cosa può dire di questo?

Ma anche nel dipingere fu così. Buzzati traspone sulla carta, o in parola, i miti che pervadono dall’interno la realtà. La capacità dell’artista, o del narratore, è quella di «accordarsi» con essi, percepirli, sapendoli esprimere. Sarebbe un errore fraintendere la trasfigurazione poetica della realtà in Buzzati con l’approccio di un eccentrico, di un sognatore. Buzzati non è questo. Per lui il «mito» viene prima della realtà e ne costituisce il fondamento. L’arte sta nel farlo riemergere, palesando il mistero che sta nelle cose. La sua è stata l’opera di un solitario; e questo ne garantisce l’assoluta modernità.

In che senso?

Torno così alla sua domanda. La sua è stata la forza di un uomo di cultura in un momento difficilissimo, in cui c’erano pressioni ideologiche possenti, rispetto alle quali Buzzati seppe rimanere completamente autonomo. Era del resto tipico del suo carattere.

Si riferisce alla cultura imperante in Italia negli anni sessanta?

Certo. C’era una pressione fortissima, di matrice comunista, che voleva conglobare – e in parte ci riuscì – tutti gli intellettuali. Buzzati ne rimase fuori, non si fece toccare. Molti altri sono diventati più famosi di lui e non certo per meriti reali. La sua modernità, al di là del valore assoluto della sua opera, sta anche in questo: non farsi travolgere dalle mode, per quanto suadenti esse siano. Questo lo consegna, oltre che all’oggi, al futuro.

Lei lo conobbe lavorando alla sua biografia. Che cosa ricorda?

Conservo un ricordo nitido. L’impressione era quella di un gran signore, elegante, educato, riservato, distinto, sobrio. La seconda cosa che colpiva era la sua cultura.

Quali sono le opere che lei predilige?

«Il deserto dei tartari», ma anche i «Sessanta racconti», forse ancor più profondi e simbolici.