Sarebbe bello poter cominciare il nuovo anno con la convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili. Mi riferisco all’ultimo volume di Steven Pinker, The Better Angels of Our Nature (I migliori angeli della nostra natura), in cui lo psicologo nordamericano si impegna a spiegare “perché la violenza è declinata” (questo è il sottotitolo) nel corso della millenaria storia del genere umano. Sino ad arrivare a sostenere che “oggi molto probabilmente viviamo nell’epoca più pacifica nella storia della nostra specie”. Ma per sostenere ciò è sufficiente applicare la statistica alle fonti storiografiche? Non è forse opportuno procedere in maniera più riflessiva, in un periodo come il nostro in cui assistiamo a un allargamento di quella zona grigia di significati compresi tra la pace e la guerra (dall’intervento umanitario al peace enforcing)?
Innanzitutto la pace è definibile come mera assenza di guerra? Si può pensare la pace senza oggettivarla, identificandola così con fattori ideali o materiali ma comunque fuori di sé? È possibile cioè pensare la pace senza produrre un discorso che miri a giustificare se stessi e la propria parte?
Il volume di Pinker non sembra sottrarsi a tale rischio, riproducendo in forma banalizzata l’antica querelle tra gli antichi e i moderni. Insieme ai commerci e al cosmopolitismo – veicolato dall’istruzione, dalla mobilità, dalla scienza e dai mass media – sarebbe soprattutto lo Stato, che monopolizza gradualmente il legittimo uso della forza, il principale fattore di incivilimento della storia. In tale superficiale ricostruzione nulla rimane dell’inquietudine che attraversa tutti i più importanti storici, sociologi e filosofi moderni in merito all’ambivalenza della nostra epoca e, in particolare, di quella forma giuridico-politica che chiamiamo Stato moderno. Ecco allora la conseguente deriva ideologica: i responsabili della violenza che, malgrado il progresso, tuttora permane sono le forze del passato (la superstizione, l’ignoranza), sono coloro che sono bollati nel miglior caso come “tradizionalisti”. Il male è altro da sé.
Come ha messo in luce Augusto Del Noce, il passaggio fondamentale che rende possibile tale operazione è di tipo concettuale: la modernità è vista come un valore. L’uomo moderno non è più posto di fronte alla scelta tra il bene e il male: l’etica non c’entra, si tratta di una conoscenza certa fornita da un’ideologia capace di scoprire le leggi che governano il corso delle cose e di manipolarle. L’uomo razionale non decide ma si conforma a qualcosa di oggettivo e di moralmente neutro – che si chiami Natura, Storia, Scienza o Tecnica è in ultima istanza indifferente.
È proprio questo che segna un passaggio epocale nella storia della violenza e quindi della pace. Gli esseri umani hanno sempre ucciso i propri nemici e la modernità non ha portato alcun nuovo contributo alla monotona storia della tortura. Ma dal Terrore giacobino in poi è apparsa una nuova categoria: il nemico oggettivo. Gruppi di uomini e donne, appartenenti a categorie etniche (come gli ebrei per i nazisti) o sociali (come i kulaki per i bolscevichi) non più previsti nel modello di società in costruzione, indipendentemente dalle loro intenzioni soggettive, devono essere eliminati. E le deportazioni e i genocidi sono compiuti il più delle volte da “bravi padri di famiglia” che ritengono di svolgere il proprio dovere, per quanto ripugnante, al servizio del proprio popolo e dell’umanità tutta. Il fenomeno nuovo della storia contemporanea nel campo della violenza e della pace è tale male “banale” capace di fare a meno di motivazioni soggettive.
Riscoprire lo spessore morale dell’agire umano, il fatto che anche nel modo in cui percepiamo e pensiamo c’è già insita una scelta morale, che la violenza comincia spesso nel fatto stesso di non vedere o ascoltare, che non c’è nulla di meramente oggettivo e neutrale è il primo passo per pensare la pace senza oggettivarla e quindi per costruirla.