La fuga del tempo è avvertita da tutti gli uomini in modi molto diversi. Alcuni ne prendono atto guardando i bambini crescere, altri vedendo le prime rughe sul proprio viso, altri ripensando a un passato più felice. Si sente la fitta della malinconia e si cercano espedienti per allontanare il pensiero degli anni che se ne vanno, incuranti della pena che la loro corsa veloce porta con sé.
Sotto il brillio della festa di san Silvestro c’è, inutile nasconderlo, questa crepa, così umana da avere ispirato nel corso dei secoli le voci di tanti poeti. E tra i tanti il più classico dei latini, il saggio Orazio, che nelle sue odi rileva molte volte il silenzioso scivolare degli anni verso la scura acqua della morte e il correre crudele del tempo che ruba ogni cosa. Una fermezza la sua, che si illumina della bellezza della poesia, per la quale gran parte di lui si salverà dalla morte: Non omnis moriar, non del tutto morirò, il cui eco rivive nei Sepolcri: e l’armonia / vince di mille secoli il silenzio.
Ma oggi di poesia ce n’è molto poca e, se ciò spegne illusioni raffinate, rischia però di alimentare la grossolana voracità di tanti, anche in tempi di vacche magre, e soprattutto il rancore che tutti più o meno nutriamo per la vita che ci tocca.
Ma si volta pagina. L’anno che inizia, come una gemma precoce sul ramo di un albero, porta con sé un’inconfessata speranza. Scrive ancora Orazio: era notte e nel cielo sereno / brillava la luna tra le stelle più scialbe. Due versi in cui l’ordine delle parole dipinge prima il buio della notte e poi apre lo spazio occupato dalla luce.
Due versi di un canto ben più popolare, l’Adeste fideles riprendono il tema della luce: aeterni Parentis splendorem aeternum / velatum sub carne videbimus.
La fede dei semplici, o di quei dotti che sanno darle voce, racchiude in poche parole la festa del Natale, ma anche quella della vita di tutti i giorni feriali. Niente impedisce, a pensarci bene, di incamminarci nell’anno bambino con una certezza nuova: vedremo lo splendore eterno del Padre velato sotto l’apparenza della carne.
Non c’è dubbio che la luce di Gesù Bambino attiri a sé il sentimento degli uomini: Astro del ciel, pargol divin; Tu scendi dalle stelle, o re del cielo: i canti natalizi tradizionali insistono tutti su questo chiarore delle stelle sulla grotta di Betlemme. Ma poi lui cresce e si nasconde ancor di più, in Egitto, a Nazareth. Dov’è la sua luce nei nostri giorni fatti di veglia e di riposo, di code, di traffico, di cibo, di negozi, di impegni, di cielo, di alberi, di telefoni e poi di amicizie, di tristezze, di noia, di malattie?
Vedremo lo splendore eterno del Padre velato sotto l’apparenza della carne. Non siamo invitati a fare sforzi complicati per togliere quel velo, nell’illusione di fare a meno del segno, della vita come ci si presenta, dal momento che il Signore ha voluto salvarci, per usare le parole di Petrarca, proprio con il prender umana carne.
È sufficiente voler rimanere dentro l’alone di quella luce vera che illumina ogni uomo. L’augurio è che i primi passi del nuovo anno possano iniziare da qui e continuare sempre più convinti e spediti nelle vicende che il 2012 ci riserverà.