Una nota e recente legge statale, approvata in Francia tra dicembre 2011 e gennaio 2012, punisce penalmente, con l’introduzione di una specifica fattispecie di reato, la negazione del genocidio armeno. In tal modo essa ha riportato alla ribalta lo sterminio perpetrato nel 1915 ad opera del governo dittatoriale dei Giovani Turchi, allora a capo dello Stato ottomano: un eccidio di massa che provocò, secondo stime ritenute prudenti, la morte di oltre un milione di persone.



Sgombriamo, anzitutto, il campo da un possibile equivoco: il genocidio armeno è “essenzialmente” un problema politico e giuridico, sebbene siano ormai molti gli Stati ad aver comunque ufficializzato il riconoscimento di tale crimine, al di là della scelta se sanzionare o meno il negazionismo. Anche l’Italia vi ha provveduto, sia pur mediante una mozione del Parlamento, che risale all’anno 2000. Ma così hanno fatto anche gli Stati Uniti, nel 2007, con un apposito intervento del Congresso.



Questo genocidio non è – o meglio, non è più, e per molti aspetti non è mai stato – un problema storiografico, giacché i più grandi studiosi e i maggiori centri di ricerca sui genocidi hanno da tempo indicato in quello armeno il primo dei genocidi del Novecento, secondo la celebre definizione di genocidio adottata dalle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948.

Va rimarcato il fatto che i primi a riconoscere in via giudiziaria la sostanza di questo genocidio – sebbene all’epoca non esistesse ancora il termine, ideato dal giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin nel 1944 – furono, paradossalmente, proprio alcuni tribunali turchi. La corte marziale turca, il 5 luglio 1919, condannò a morte, in contumacia, i principali responsabili del massacro degli armeni, Talaat, Enver, Çemal e Nazim: i capi, cioè, dell’Ittihad, della fazione che si era imposta su un partito, quello dei Giovani Turchi, inizialmente ispirato agli ideali egualitari della Rivoluzione francese, ma che poi, in virtù di una dinamica politica interna e dello sfavorevole contesto internazionale, si era volto alla costruzione di una ideologia ultranazionalistica fondata sull’ossessione cospirativa e sulla purificazione della società.



Di più. Il carattere genocidario del massacro armeno – concepito come pianificazione statale della soppressione di una parte considerevole della minoranza nazionale e religiosa armena, con esecuzione scientifica e spietata di questo programma – era stato denunciato come tale anche nel momento stesso in cui si compiva. Ciò da parte di alcuni sopravvissuti e, soprattutto, da parte di decine di testimoni oculari del tutto attendibili (personale diplomatico, religiosi, etc.), i quali, in drammatiche relazioni, scritte e orali, tentarono di evidenziarlo all’opinione pubblica occidentale.

Ad esempio, proprio sulla base di queste fonti di prima mano, nonché fondandosi sulla frequentazione assidua dei capi dell’Ittihad e dei rappresentanti diplomatici di altri Paesi, l’ambasciatore americano a Costantinopoli, Henry Morgenthau, il 16 luglio 1915 inviava un telegramma a Washington, in cui informava il segretario di Stato che la deportazione degli armeni ordinata dallo Stato ottomano altro non era che un paravento per una «campagna di sterminio razziale»: evento che Morgenthau stesso, pochi anni dopo, avrebbe definito come il crimine più nefando dell’intera storia umana. 

Non può discutersi, dunque, di un problema storiografico, bensì di un problema eminentemente politico e giuridico. Politico, in primo luogo, in quanto esso offre ancora l’occasione per alimentare conflitti e dibattiti, sia all’interno di molti Stati, sia nell’ambito della comunità internazionale. La Francia, per l’appunto, ha sostenuto che una legge finalizzata a punire il negazionismo costituisce una ineludibile forma di tutela che lo Stato deve offrire a tutti i suoi cittadini di origine armena. La Turchia ha reagito duramente, ritirando i propri ambasciatori ed annunciando rilevanti rappresaglie di carattere economico. Ma vi possono essere “gradazioni” ulteriori dello “scontro”: alcuni Comuni italiani hanno deciso di commemorare pubblicamente il genocidio armeno; l’ambasciatore turco ha trasmesso ai Sindaci una missiva, nella quale li invitava, per così dire, ad una riflessione maggiore, rendendosi disponibile ad impartire una sorta di (curioso) approfondimento storico qualificato.

La questione, poi, è anche giuridica. La criminalizzazione del negazionismo, in sé e per sé considerato, importa potenziali attriti, se non contraddizioni, vuoi con la tutela costituzionale della libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, vuoi con un principio cardine delle consolidate impostazioni classiche del diritto penale di matrice liberale, ossia con il principio della necessaria offensività delle condotte da punire. Può comminarsi una sanzione penale a coloro che sostengono una determinata lettura, anche se minoritaria, di alcuni eventi storici? E come comportarsi, poi, nei confronti di quelli che, semplicemente, ripetono tesi o “lezioni” apprese sui banchi di scuola? Può decidersi di punire “la parola” o “lo scritto”, senza che questo sia accompagnato da contegni che incitano, concretamente, alla commissione di altri reati?

In alcuni Stati, si ha un’attitudine molto sorvegliata nei confronti del negazionismo. In Spagna, ad esempio, e proprio con riguardo ad un giudizio relativo al caso armeno, il Tribunal constitucional ha salvato la legittimità costituzionale dell’apposita fattispecie di reato che era stata concepita dal legislatore, alla sola condizione che all’atto della negazione si accompagni, effettivamente, l’istigazione a darvi seguito con altri atti criminali. Più in generale, inoltre, alcuni interpreti tendono a segnalare, per un verso, che la criminalizzazione del negazionismo non impedisce concretamente il verificarsi di nuovi casi di genocidio, per altro verso, che essa contribuirebbe a radicalizzarne le manifestazioni e i gruppi che ne sono portavoce, precludendo ogni margine per utili, e forse maggiormente proficue, politiche pubbliche di cittadinanza sull’educazione e sulla memoria.

Eppure, in altri Stati permane la previsione della sanzione penale, e, anzi, l’Unione europea è giunta, nel 2007, a prescrivere che gli Stati membri, laddove sforniti, se ne dotino espressamente. Non si può trascurare, del resto, che molti degli studiosi che hanno affrontato, anche di recente, il negazionismo hanno evidenziato come sia possibile, e forse doveroso, operare una distinzione tra le negazioni e le opinioni. Le seconde sarebbero ammissibili, mentre le prime, proprio perché volte a perpetuare l’attitudine offensiva del crimine commesso, dovrebbero essere combattute e punite. Ancora: le seconde alimentano la ricchezza del pluralismo culturale, posto alla base del carattere democratico delle società occidentali più avanzate; le prime, viceversa, generano un esiziale cortocircuito con quello stesso pluralismo, poiché non ammettono le posizioni contrapposte. In questa prospettiva, la memoria potrebbe essere invocata come radice di un patriottismo costituzionale “non rinunciabile”.

Non c’è dubbio che la memoria sia un fenomeno molto eterogeneo, attraversato da sensibilità individuali, di gruppo o collettive (peraltro non sempre coincidenti), ma anche da questioni di ricordo e di riconoscimento istituzionale (così come avviene in occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, anniversario da poco trascorso; ma sono moltissime, anche in Italia, le “leggi” della memoria e le occasioni di celebrazione ufficiale).

Entrambi i versanti meritano attenzione. Il primo si risolve, prevalentemente, in una diffusa domanda di giustizia, ed è qui che usualmente si concentra, innanzitutto, il discorso sul negazionismo come oggetto di una fattispecie penalmente rilevante. Il secondo, invece, si alimenta certo di quella domanda, ma si deve tradurre in iniziative pubbliche strutturate: in esse la comunità si scopre titolare, a buon diritto, della prerogativa di incentivare determinate memorie e determinati ricordi, e ciò anche nella direzione di scongiurare pratiche negazioniste capaci di entrare in conflitto con i presupposti fondamentali e con i valori supremi dell’ordinamento giuridico tout court considerato.

È questo obiettivo che si vuole preservare, in quanto perseguibile anche da soggetti che non sono ascrivibili ad una etnia o ad un popolo colpiti da persecuzioni storiche. Questi, nonostante ciò, partecipando a quelle drammatiche esperienze, trovano modo di rinnovare il patto sociale e di rafforzarlo mediante la metabolizzazione di prospettive altre che lo arricchiscono e che in esso integrano le “vittime storiche” mediante un riconoscimento che non si esaurisce in un tributo puramente occasionale o formale.