Secondo la nota definizione di Ulpiano la giustizia consiste essenzialmente nel riconoscere a ciascuno il suo: dare cuique suum; una formula che ha, tra gli altri, l’ulteriore pregio di sollecitare con urgenza l’interrogativo su cosa sia questo suum da garantire ad ogni uomo perché venga, appunto, assicurata giustizia.
Per esempio: quando l’incredulo Torben, che ha ucciso in una tetra notte danese la moglie Edith, si sente dire “Lei è libero”, ha ricevuto il suo? Il protagonista del romanzo di Stangerup L’uomo che voleva essere colpevole si muove all’interno del mondo immaginato dallo scrittore danese agli inizi degli anni settanta come proiezione dell’utopia psicosociale del benessere che costituisce l’ambizioso traguardo dei paesi dell’area nordico-scandinava dell’Europa.
“–Lei è libero–, disse improvvisamente lo psichiatra cui toccava emettere la sentenza sull’assassino. –Libero?, chiese Torben. –Siamo tutti d’accordo che può tranquillamente reinserirsi nella società–”. Gli Assistenti del caseggiato, gli psichiatri, la direzione del Reparto Tessere Mammaepapà; tutti negano la colpevolezza di Torben.
Qualcosa del genere aveva rappresentato il genio visionario di Buñuel nel film Il fantasma della libertà (uscito nel 1974, giusto un anno dopo il racconto di Stangerup): tra i tanti tasselli che compongono il surreale mosaico del mondo rappresentato dal regista spagnolo ve n’è uno che racconta di un tizio che, dopo essersi lamentato col lustrascarpe della crudeltà degli uomini contro gli animali, sale fino all’ultimo piano di un palazzo in costruzione, estrae un fucile da quella che sembrava la custodia di uno strumento musicale e comincia a sparare a casaccio sulla folla. La sentenza emessa dal giudice del tribunale riconosce in lui l’autore dei delitti e lo condanna a tornarsene libero, tra gli applausi del pubblico e le congratulazioni di magistrati e avvocati. Ma Torben non festeggia; al contrario, si sente mancare la terra sotto i piedi e la disperazione si impadronisce di lui.
“Lei è libero. –Ma non potete lasciarmi andare così! – disse, rendendosi conto di quanto suonasse patetico. –Io sono colpevole! Di omicidio! Ho ucciso mia moglie–. (…) Lo psichiatra divenne ancora più tagliente: –Colpevole! – esclamò con un tono di leggero disprezzo –lei sa bene che la società sta cercando di abolire una volta per tutte il concetto di colpa! –. (…)–Ma io l’ho uccisa! – si sentì ripetere –Ma io l’ho uccisa! –.–O piuttosto è stato spinto a farlo. Non è la stessa cosa–.
–Uccidere è sempre uccidere! –. (…)
–Negano che io abbia ucciso mia moglie– spiegò –pretendono che si trattò di un incidente… che lei cadendo batté la testa–. (…)
Lui era colpevole. Non erano state le circostanze a spingerlo a uccidere Edith. Ma non desiderava essere punito, desiderava solo questo: che si riconoscesse che quella sera era perfettamente consapevole di ciò che faceva, anche se era pieno di whisky”.
Si ribella Torben perché il “suo” gli è stato tolto: se io non sono responsabile dell’omicidio di mia moglie, se ogni azione, e, si potrebbe aggiungere, se ogni pensiero o parola od omissione, è la risultante di una incidentale convergenza di fattori esterni a me, manipolabili a loro piacimento dai tutori della felicità sociale, allora io non esisto e niente è mio. L’apparente bonomia del potere si rivela assai peggiore della rozza crudeltà del boia, perché affonda la sua scure alla radice stessa di quella libertà che sembra riconoscergli (lei è libero), ma che viene negata nella sua sostanziale irriducibilità ultima ad ogni condizionamento. In questo modo la trama delle relazioni in cui si sviluppa l’esistenza di ogni uomo anziché urgere il peso della libertà e del giudizio della persona finiscono per polverizzare l’originalità e l’imprevedibilità del suo stesso esserci, come del resto appare nebulizzato il corpo morto della povera Edith che viene atrocemente rimosso dalla scena di questo mondo e proiettato nello spazio gelido dell’oblio universale.
Del resto la tentazione di attribuire il male a una causa esterna all’uomo era ben presente a Cristo stesso, quando affermava: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7, 14-15.20-21).
La sentenza di Nietzsche sulla giustizia appare quindi molto evangelica, dal momento che non propone l’abolizione della colpa per l’imputato, ma la sua estensione al giudice stesso: “Dite: dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi, dunque, l’amore che porta su di sé non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe”. (Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1986, p. 80)
Togliere la colpa equivale infine a negare all’uomo la prerogativa dell’iniziativa, vale a dire la capacità di iniziare qualcosa di nuovo, qualcosa di più e di diverso dalla somma degli elementi prevedibili indagati tramite gli strumenti analitici e statistici delle discipline sociali, economiche, psicologiche, culturali eccetera.
David Eagleman, neuroscienziato del Baylor College of Medicine, Texas, sostiene qualcosa di analogo sul numero estivo di quest’anno del mensile americano The Atlantic: “Mentre l’attuale sistema delle pene si basa sulla volontarietà e sulla responsabilità, la comprensione dei meccanismi cerebrali dovrebbe farci vedere le cose in un altro modo. Il concetto di colpevolezza dovrebbe essere eliminato dal linguaggio giuridico. È un concetto superato, che presuppone il tentativo impossibile di sciogliere il complesso intrico di geni e ambiente che costruisce la traiettoria della vita umana”.(D. Eagleman, The brain on trail). In questa prospettiva il meccanismo di governo delle azioni umane si sposta all’interno dell’organismo stesso, fino a paventare una possibile liquidazione del libero arbitrio in favore di una sorta di “chimico arbitrio”: “La neuroscienza sta affrontando dei problemi che in passato erano dominio esclusivo dei filosofi e degli psicologi. Si chiede in che modo le persone prendono le loro decisioni e fino a che punto queste decisioni sono davvero ‘libere’”.
Così si è cominciato qualche anno fa a parlare di Neuroetica, con il rischio di affidare ad un sinedrio di esperti la competenza di valutare i comportamenti umani, spiegandoli alla luce di conoscenze che al momento appaiono parziali, incomplete ed approssimative, mentre in futuro potrebbero non esserlo, dimenticando però che la traiettoria della conoscenza umana è sempre apparsa tale da aprire, dopo ogni nuova scoperta, territori di indagine ancor più ampi di prima. La massima shakespeariana secondo cui ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne contempli la filosofia appare ancora vera ed attuale. È lecito dunque domandarsi se il procedere di nuove scoperte, piccoli fiori di campo in una prateria di cui ci sfuggono i confini, giustifichi il possibile abbandono di quella sapienza millenaria che proprio sulla riverenza al leopardiano “eterno misterio dell’esser nostro” fonda la possibilità di una pratica e di una cultura della convivenza umana orientata alla giustizia.
Valga, come esempio efficace di questa scienza del popolo che chiamiamo tradizione, la memorabile pagina del Mulino del Po di Bacchelli, in cui si racconta il travaglio giudiziario del gigantesco Princivalle che, astutamente e facilmente ingannato da uno Iago di provincia, uccide a mani nude il fidanzato della sorella.
“–Avete nulla da aggiungere? –Mi chiamo in colpa – rispose alla domanda di rito.
Ma piuttosto che pentito, così dicendo, pareva a suo modo orgoglioso. E quel suo pentimento, della notte funebre sulla riva del fiume, appariva più che altro un calcolo della paura, d’uno che aveva disperato dello scampo, e così la sua costituzione ai carabinieri. Innanzi agli uomini, poco dunque gli valeva o nulla; scansò l’ergastolo, ma ebbe trent’anni di lavori forzati.
Lettagli la sentenza: –Vi ringrazio – disse ai giudici e ai giurati.I primi non l’udirono, e chi l’udì, o non badò, o l’ebbero per scemo, o indurito affatto: il Bragagna, ch’era venuto con altri della Guarda a sentirgli leggere la sentenza, diceva che aveva fatto la commedia fino all’ultimo.
Necessità condanna l’ipocrito tristo a negare quello contro cui pecca.
Non soltanto dalla competenza giuridica, ma dall’umana esulava ultimamente ciò che aveva dettato a Princivalle il suo ringraziare: superava, nell’atto di ubbidirgli lui, non che altrui scienza, l’esperienza sua: apparteneva al segreto che l’uomo accoglie intiero, nel nascere ignaro, restituisce intiero, morendo, se non in quanto scienza ed esperienza l’hanno concetto via via più grande e più forte segreto nel tramite misero e sublime dei giorni terreni. Infatti chi più vi scorge più lo profonda ma è di tutti in quanto è d’ognuno, originale, intiero, uguale in sé, purché viva, in grandi e pusilli; dei quali uno era Princivalle Scacerni: ma vivente, ma sincero in coscienza”.
Forse il segreto di cui Bacchelli scrive cheniente si dà di più alto e più profondo al conoscere e all’agire dell’uomo è quel suum da cui hanno preso le mosse queste poche e sommarie riflessioni.