A Londra è scoppiata una guerra tra artisti. David Hockney contro Damien Hirst. Il primo è pittore, post pop, apprezzatissimo dal mercato, giovane rispetto alla sua età, di 75 anni (è stato tra l’altro il primo a fare opere – bellissime – con l’Ipad). Il secondo è il mattatore della Young British Art, non ancora cinquantenne, artista miliardario che il giorno della caduta della Lehman Brother piazzò in un’asta storica opere per 200 milioni di sterline. Tutt’e due saranno protagonisti di altrettante mostre in contemporanea a Londra nei prossimi mesi: il primo alla Royal Academy, il secondo alla Tate Modern. La guerra mediatica che è scoppiata e che in Italia è stata ripresa bene da Repubblica nelle sue pagine culturali, è funzionale a lanciare con efficacia i due eventi.



A buttare il sasso è stato per altro il meno mediatico dei due big britannici, cioè David Hockney: un artista dal profilo molto più tradizionale rispetto ad Hirst (che, ricordiamolo, venne scoperto da un guru della pubblicità mondiale come Charles Saatchi). Hockney infatti ha deciso di presentare le sue opere con un cartellino in cui garantisce che sono state tutte eseguite dall’artista. Un’evidente allusione al fatto che Hirst (come anche tanti altre star, quali Koons e Cattelan) delega la realizzazione delle sue idee a un’équipe di collaboratori collaudatissimi. Damien Hirst, in parallelo alla rassegna della Tate, si prepara ad un’operazione che non ha precedenti, con una mostra su scala mondiale in tutte le sedi della più potente galleria del mondo, la Gagosian (che in Italia ha una sede a Roma), in cui presenterà 400 varianti delle sue opere con pallini colorati. Varianti che lui ha solo immaginato e neanche sfiorato.



Messo così il dibattito non ha evidentemente bisogno di ulteriori elementi per formulare un giudizio. Ha ragione chiaramente Hockney. Eppure è un errore liquidare la cosa in modo così semplicistico. Personalmente seguo la parabola di Hirst da quando ho saputo che Francis Bacon, poco prima di morire, guardando un’opera dell’allora giovane artista, disse tra la sorpresa generale che lo considerava un suo erede. Bacon, che è stato il più grande artista del secondo novecento, non era uomo che si lasciava facilmente andare ad entusiasmi (l’unico per cui ammetteva una venerazione era Giacometti).



In effetti Hirst è un artista tanto provocatorio quanto capace di opere di straordinaria drammaticità. Tutti hanno in mente il suo squalo messo nella grande cassa di vetro e immerso nella formaldeide. È un’immagine che vista dal vero riempie di meraviglia e sgomento, in particolare se si pensa al titolo che Hirst le ha dato: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, ovvero L’impossibilità fisica della morte nella mente di una persona che vive. Ricordo di aver visto una sua mostra al Museo Archeologico di Napoli in cui i suoi animali si alternavano alle statue classiche con un effetto potente e spiazzante. Ad esempio era difficile non pensare ad un’immagine sacra guardando la purezza di quel suo agnello, chiuso in formaldeide e messo su un ripiano che poteva sembrare un altare.

Certo, poi Hirst ha anche un aspetto assolutamente insopportabile legato ai suoi eccessi di protagonismo, al fatto di essere dentro una macchina infernale del mercato che gli impone di alzare sempre il tiro per non perdere il centro della scena. Ma liquidarlo per questi suoi atteggiamenti è un errore semplicistico. Dovessi trovare una sintesi a questa polemica, direi questo: Hockney ha ragione. Ma non è detto che chi ha ragione sia anche il più grande.

 

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