È esistita una guerra italiana ricca di risvolti che pochi ancora conoscono, diversamente da quanto accaduto per i nostri soldati impegnati su altri fronti, come quello russo, le cui vicende sono state studiate e hanno dato luogo ad una ricca memorialistica. Nel suo ultimo Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945 (Il Mulino), scritto con Maria Teresa Giusti, la storica Elena Aga-Rossi, una delle voci più autorevoli della storiografia contemporanea, ha raccolto il frutto di un amplissimo lavoro di ricerca volto finalmente a restituire alla storia la complessa vicenda del nostro esercito in una guerra a torto relegata in disparte: sia rispetto al baricentro delle operazioni belliche più importanti della seconda parte dell’ultimo conflitto mondiale, sia rispetto alle più note tesi storiografiche sia, non da ultimo, nella nostra memoria.
Elena Aga-Rossi, come scrivete nel libro quella nei Balcani è «una guerra a parte». In effetti la memoria italiana della seconda guerra è focalizzata su altri episodi, come la ritirata di Russia o la guerra partigiana. Perché questa dimenticanza?
Le ragioni sono complesse e risalgono all’atteggiamento tenuto dalla classe dirigente italiana nel secondo dopoguerra. Essa sostenne che la guerra era stata voluta dal fascismo contro la volontà degli italiani. In modo coerente quella nei Balcani venne dipinta come la tipica guerra di aggressione fascista, rimossa dalla memoria collettiva perché agli antipodi della guerra «giusta», quella dell’antifascismo e della resistenza. Diverso il caso della Russia: ci fu di mezzo una perdita enorme di uomini che fin dall’immediato dopoguerra provocò forti polemiche. Invece la guerra dei Balcani è stata dimenticata anche nei libri di storia, e la guerra in Africa ha avuto la stessa sorte.
Una fortunata interpretazione attribuisce agli Italiani una politica completamente diversa da quella tedesca. È il mito dell’«italiani brava gente». Cosa c’è di vero?
È appunto un mito. La nostra è stata l’occupazione di un paese aggressore in un contesto di guerra totale. Una occupazione dura, accentuata dal fatto che sul posto c’erano forze di resistenza molto agguerrite e spietate, soprattutto in Jugoslavia dove accanto alla guerra contro gli occupanti i partigiani di Tito erano impegnati in una guerra civile, ma anche in Grecia e in Albania la lotta fu molto aspra. È stata una guerra particolarmente violenta, con efferatezze sia da parte partigiana che italiana. Al pari dei tedeschi anche gli italiani uccidevano i partigiani che trovavano in armi, incendiavano villaggi, deportavano i civili sospettati di connivenza. Per questo si è affermata la tendenza, nella storiografia recente, ad equiparare i soldati italiani a quelli tedeschi nell’opera di repressione. Ma questo non è vero.
Allora dove starebbe la differenza?
Non tanto sul piano delle direttive, che a volte erano altrettanto dure, ma su quello della loro attuazione; per il carattere tipico dei nostri soldati, propensi a non eseguire alla lettera gli ordini più spietati. Considerare solo i comandi, come hanno fatto alcuni storici, e non le modalità di esecuzione e con esse anche le eccezioni, dà una visione deformata. Soprattutto, l’atteggiamento è stato diverso nel periodo della gestione ordinaria dell’occupazione: in particolare in Grecia, molti soldati italiani vivevano a contatto con i greci nelle loro case, erano disponibili ad aiutare la popolazione affamata… I tedeschi invece avevano verso la popolazione un distacco e un disprezzo totale.
Arriviamo dunque al momento più tragico, all’8 settembre. Nel libro emerge molto chiaramente che gli italiani arrivarono totalmente impreparati all’armistizio, mentre i tedeschi erano pronti da molto tempo…
L’armistizio colse i militari italiani del tutto impreparati al cambiamento improvviso, da un momento all’altro, dei rapporti tra le forze in campo: i tedeschi, da alleati, diventarono nemici. Quando a metà agosto furono avviati i primi contatti, che avrebbero portato alla firma dell’armistizio, il Capo di stato maggiore Ambrosio aveva suggerito a Badoglio di avvertire i comandanti nei Balcani e di far tornare in Italia almeno una parte delle divisioni, il che sarebbe stato anche logico, visto che un mese prima c’era stato lo sbarco alleato in Sicilia. Ma Badoglio – c’è una sua dichiarazione – disse chiaramente che avrebbe preferito perdere mezzo milione di uomini piuttosto che rischiare di far capire ai tedeschi che l’Italia stava pensando all’armistizio. L’8 settembre 1943 oltre il trenta per cento dell’esercito italiano, 650 mila uomini, era stanziato nei Balcani, eppure il governo Badoglio decise di non rimpatriare una parte delle trentacinque divisioni né di avvertire i loro comandanti delle trattative in corso con gli angloamericani per non rischiare di insospettire l’alleato. Non solo, vennero ceduti ai tedeschi gli aeroporti in Albania, dove erano quasi del tutto assenti loro truppe, e molte posizioni cruciali in Grecia, dove il comando alla fine di luglio fu assunto dalla Wehrmacht. Soltanto alcuni settori ricevettero nei primi giorni di settembre ambigue direttive di un possibile colpo di mano da parte tedesca, ma la maggior parte dei comandi seppe dell’armistizio solo dalla radio.
Quale fu l’atteggiamento dei soldati?
Solo in pochi ascoltavano Radio Londra, tutti gli altri si informavano con la propaganda fascista. Se ricordiamo che i nostri soldati erano andati in guerra malamente equipaggiati, che molti di essi erano lontani da casa ormai anche da due anni, che c’era una preoccupazione diffusa per quello che accadeva in Italia – pensiamo ai massicci bombardamenti sulle città italiane nel primo semestre del ’43 – ci rendiamo conto della grande stanchezza della guerra che regnava tra i nostri soldati, che contribuì allo sbandamento seguito all’annuncio dell’armistizio, non preparato e accompagnato da ordini contradditori e incerti. Possiamo immaginare la sorpresa al proclama di Badoglio e la difficoltà di interpretarlo: le nostre forze, mentre cessavano le ostilità contro gli angloamericani, avrebbero reagito «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»… da molti soldati quel proclama venne accolto con gioia e interpretato come la fine della guerra.
E da parte tedesca?
Le forzate dimissioni di Mussolini furono immediatamente interpretate da Hitler come la volontà dell’Italia di uscire dalla guerra e la reazione fu immediata, perché il controllo dell’Italia e dei Balcani era fondamentale per evitare ai bombardieri alleati di raggiungere la Germania. La reazione tedesca dal punto di vista organizzativo fu militarmente straordinaria: già a fine luglio avevano messo a punto un piano per disarmare gli italiani anche con la forza, il piano Achse, e l’8 settembre poterono presentarsi alle caserme e chiedere le armi a un esercito che non sapeva cosa fare, facilitati dall’accurata preparazione precedente.
Quale fu l’atteggiamento dei comandanti nei Balcani davanti all’armistizio e alle richieste di disarmo dei tedeschi?
In un primo momento molti cercarono di prendere tempo e rifiutarono di arrendersi, in attesa di avere direttive più precise dal governo. Ma di fronte alla prepotenza tedesca la maggior parte dei comandanti cedette, anche perché i tedeschi promisero agli italiani, ingannandoli, di impegnarsi a riportarli in Italia: fu facile convincerli, perché era esattamente quello che loro volevano. Questo dell’inganno tedesco è un aspetto poco sottolineato dalla storiografia, anche se era stata una parte importante delle direttive ricevute, che puntavano sulla stanchezza della guerra da parte degli italiani: al contrario di questi, i tedeschi sapevano esattamente cosa fare. Vi furono anche molti casi di collaborazionismo, ignorati dalla storiografia, di comandanti che scelsero, per ragioni le più varie, dal senso dell’onore all’opportunismo, di continuare a combattere a fianco dei tedeschi, ma anche, all’opposto,di singole unità o divisioni che rifiutarono di cedere le armi.
Cosa accadde ai militari che tentarono di resistere ?
I tentativi di resistenza con le armi finirono tutti tragicamente. Il caso più noto è quello della divisione Acqui, stanziata sulle isole di Cefalonia e di Corfù. La storia di Cefalonia è diventato un caso emblematico della resistenza dei militari, anche se è stata oggetto di aspre polemiche e di interpretazioni contrastanti. Meno noto è la vicenda di Corfù: il colonnello Lusignani, comandante del distaccamento, rifiutò fin dall’inizio ogni trattativa di resa e riuscì a respingere il primo tentativo dei tedeschi di sbarcare, facendo perfino dei prigionieri (l’unico caso di soldati tedeschi fatti prigionieri e mandati in Italia). I tedeschi però, dopo essersi dedicati a Cefalonia, tornarono a Corfù, riuscendo infine ad avere la meglio e a prendere il sopravvento. Vennero uccisi centinaia di militari e Lusignani fu fucilato. Ma vi furono anche altre divisioni che cercarono di mantenere le armi e per sopravvivere si unirono ai partigiani, combattendo al loro fianco. Questa fu la scelta delle divisioni Venezia e Taurinense, stanziate in Montenegro, che si fusero assumendo il nome di divisione Garibaldi, sotto il comando dei partigiani di Tito. Prima del rimpatrio, avvenuto nel marzo 1945, la Garibaldi ebbe migliaia di caduti, uccisi in combattimento, morti per malattie, denutrizione o in alcuni casi per mano degli stessi partigiani. Anche la divisione Pinerolo in Grecia si sottrasse in parte alla resa, per continuare a combattere a fianco dei partigiani greci, che però violarono gli accordi disarmandola. Gruppi di militari continuarono a combattere in piccole unità, o furono reclusi in condizioni difficilissime in campi di internamento in Grecia e in Jugoslavia oppure lavorarono per la popolazione locale fino alla fine del conflitto.
Quali sono secondo lei gli elementi che ancora è necessario studiare? Ci sono altre «guerre a parte»?
In generale la guerra italiana dovrebbe essere studiata nella sua completezza, cosa che non è stata fatta. Per questo abbiamo voluto scrivere un libro che comprendesse due periodi finora trattati separatamente dagli storici, quello della guerra e dell’occupazione in Albania, Grecia e Jugoslavia dal 1939 al 1943 e quello del biennio 1943-1945, su cui non esiste un’opera complessiva e documentata scientificamente. Gli stessi militari, descritti come criminali di guerra nei Balcani dal 1940 al 1943, divengono poi vittime o eroi partigiani negli anni 1943-1945. Abbiamo sentito il dovere morale di ricostruire la loro tragica odissea, che ha coinvolto milioni di famiglie, per poi essere rimossa dalla memoria collettiva. Anche le vicende del fronte in Africa dovrebbero essere riviste, perché laggiù il nostro esercito si comportò con valore, anche se in una guerra sbagliata. Quello dell’italiano vigliacco è uno stereotipo che dovrebbe essere senz’altro rivisto: a cominciare dalla storiografia anglosassone, dove gli italiani sono quelli che si arrendono e basta. Ma sono semplificazioni che andrebbero ormai definitivamente superate.