Torna saltuariamente fuori il dibattito sul “nuovo realismo”, inaugurato da Ferraris con il Manifesto del nuovo realismo comparso su Repubblica nel 2011. Emanuele Severino per esempio ha scritto sull’argomento nella rubrica “La lettura” del Corriere della Sera del 16 settembre scorso. Maurizio Ferraris (Repubblica, 18 settembre) e Gianni Vattimo (Corriere, 21 settembre) hanno risposto e rilanciato idee sulla questione. Seguiranno, vien da pensare, ulteriori interventi.



Che cosa si intende in filosofia per realismo? Si intende una teoria secondo cui la ragione umana può conoscere la realtà: cioè le cose, il mondo. Così si potrebbe riassumere la tesi di Ferraris: dopo Nietzsche e la filosofia contemporanea – più o meno post-moderna – la realtà è diventata inattingibile se non attraverso il filtro delle interpretazioni, dei punti di vista. È quindi in primo piano il soggetto che interpreta, con il conseguente relativismo. Per fondare la conoscenza bisogna invece basarsi su un punto di riferimento semplice, comune e condivisibile, che sarebbe la realtà stessa, le “cose”, prima e al là di una interpretazione.



Secondo Ferraris intorno al Sessantotto le “interpretazioni” generalmente lottavano contro una cultura borghese dominante, contro una metafisica ideologica. Ora il processo sembra invertito e la danza e il conflitto delle interpretazioni sembrano funzionali al predominio di un potere autoritario. 

Si tratta di vedere quali linguaggi e quali filosofie possono sostenere l’impresa di tale istanza “realistica”.

Severino attacca in modo perentorio e commenta, anche al di là del dibattito promosso da Ferraris, la debolezza del contesto teorico internazionale che sembra non possedere più delle bussole di riferimento. Tale contesto ignora Heidegger, ignora il nostro Giovanni Gentile, gigante della filosofia del XX secolo e sembra un po’ infantilmente ignorare che, nel proporre una concezione condivisibile di realtà, diciamo al di là del relativismo delle interpretazioni, della cosiddetta “realtà” comunque “se ne parla”, “la si pensa”. Questa è la forza inoppugnabile dell’idealismo nella grande tradizione filosofica dell’Occidente che, da Parmenide a Bontadini, allo stesso Severino, rilancia l’intreccio indissolubile tra la realtà e il pensare. Gli idealisti hanno in questo ragione: non si può far finta di non pensare e poi, pensando, guardarsi (cioè pensarsi) come dal di fuori.



Ferraris risponde a Severino: capisco le ragioni dell’idealismo. Ma oggi la frontiera tra il pensiero e la realtà è cambiata: nel post-moderno la realtà, le cose, “sono socialmente costruite”, sono cioè effetto di manipolazioni interpretative e mediatiche. Occorre perciò un nuovo realismo che ci faccia ri-ottenere le cose prima e al di là di questi giudizi. Così argomenta Ferraris: i fossili esistevano prima di noi, prima che noi li pensassimo e li ricostruissimo nel nostro pensiero e nelle nostre interpretazioni. Quando giochiamo con il nostro gatto ci rendiamo conto che lui è diverso, impenetrabile nella sua natura, prima e al di là di ciò che ne pensiamo.

Io rispondo a Ferraris: i fossili nella loro inquetante lontananza sono nel pensiero e il mio gatto, nella sua enigmaticità inquietante e affascinante, è nel pensiero. Anche Ferraris, per parlarne, li pensa. Nel tentare di strappare fossili e gatto dal discorso che ne facciamo in quanto esseri umani, Ferraris li sospinge fuori dal pensiero. Li pensa fuori – tuttavia pensandoli.

La posta in gioco di questa discussione non è tanto una nozione di realtà, quanto una nozione di pensiero. Il pensiero, io credo, non è tanto e solo il pensiero interpretante, ma è relazione originaria con l’altro. Tale “altro” può essere concepito in molti modi: l’altro uomo, l’oggetto del mio desiderio, la minaccia in cui mi imbatto e che mi schiaccia, Dio, esistente o meno che sia. C’è inoltre un’alterità più radicale che passa attraverso di me e mi costituisce. Quando dico “io” mi rapporto a ciò che mi sfugge, da cui dipendo, da cui non riesco a strapparmi e che non è pensabile come una “cosa”.  

Questa mossa di Ferraris è conseguenza del fatto che per lui il non (il negativo) e l’altro (l’alterità, la differenza) sono concepiti fuori dal pensiero. Non ci troviamo tanto di fronte ad una interpretazione, ma ad una chiusura (conscia o inconscia poco importa) dell’ambito, dell’orizzonte stesso del pensiero. Auto-chiudendomi dico che l’altro è fuori di me.

Perché questa mossa? Qual è il suo movente? A me sembra che il programma neo-realista sostenuto da Ferraris e da altri teorici convergenti su tale prospettiva sia determinato dal tentativo di evitare lo scontro di interpretazioni che, nell’impossibilità strutturale di una pace stabile e sicura, spinga alla violenza e alla guerra.

Non credo personalmente che tale neo-irenismo illuminista (ammesso che sia effettivamente ciò a muovere Ferraris) possa evitare futuri scontri di civiltà e/o di religione. La “tabula rasa” e l’assenza di interpretazioni espongono anzi più facilmente, io credo, all’arbitrio e alla dittatura.

Credo invece che solo il coraggio ed insieme l’umiltà, anch’esse strutturali nell’umano, di correre il rischio del negativo, di una alterità irriducibile che mi attraversa, possa essere via ad un dialogo e a una unificazione pur misurata nella sua impossibilità.

Si tratta di esperire una forma di sapere che non sia data dalle visioni del mondo, dai punti di vista: uno stile di pensiero che metodologicamente possa prescindere dalla proprietà, dal dominio del senso delle cose (naturali o sociali poco importa). Mi riferisco ad uno stile di pensiero che si costituisca originariamente come un domandare, un interpellare che susciti l’altro ed accetti di essere suscitato.

In questo crinale, sempre da riscoprire (attivo nella tradizione greco-cristiana del pensiero) la realtà può farsi innanzi non come una cosa, un feticcio, ma come la sorprendente (liberante o anche inquietante) riformulazione dei modi del nostro sapere.