“Nel mio ultimo libro, Cattedrale, le storie hanno maggior respiro. Sono più piene, più forti, sviluppate, e più ricche di speranza”. Così diceva della sua ultima raccolta di racconti pubblicata quando era ancora in vita lo scrittore americano Raymond Carver. Cathedral, Cattedrale esce infatti nel 1983: cinque anni dopo, a soli 50 anni, Carver muore in seguito a lunga malattia. Difficile dire se lo scrittore avrebbe dato il meglio di sé se avesse continuato a vivere: lui stesso nell’ultimo periodo di vita si dichiarava insoddisfatto del suo lavoro e la frase citata indica un cambiamento di visuale, ma questa è una attitudine che hanno tutti i grandi artisti, quella di ritenere di non aver mai raggiunto il meglio di sé. 



Carver, spesso preso a prestito dal cinema hollywoodiano (su tutti, Shorts Cuts di Robert Altman che mescola genialmente alcuni suoi racconti) è stato uno straordinario autore specializzato in racconti brevi, di taglio minimalista e fortemente realista, perfetti come spunto per sceneggiature cinematografiche. Gigliola Nocera in un suo saggio ha detto che Carver è stato “un grande narratore perché ha saputo trasgredire e sconvolgere ogni teoria, ed essere un fuorilegge in grado di scrivere nuove leggi. Ha cercato dei maestri, da John Gardner a Gordon Lish, per imparare a non seguirli, e ha saputo allargare i confini del realismo americano”. Realismo e vita quotidiana della coppia media americana, nei dettagli di un televisore o di un frigorifero rotti, di un cane abbandonato, di un venditore di aspirapolvere, sono il tema dello scrittore, sempre con uno sguardo di partecipata commozione. 



Uomo dalla vita travagliata, sia nell’infanzia che nella maturità gravata anche da problemi di alcolismo, Carver può riuscire in parte ostico al lettore europeo proprio per la sua spiccata americanità, ma le sue di fatto sono storie dal respiro universale. Storie di esistenze gravate dal dolore, dalla fatica del vivere, dal desiderio di una pienezza difficilmente raggiungibile, ma che piccoli incidenti di vita riportano a galla come esigenza insopprimibile. Storie che rimangono sospese, senza un vero finale a lasciare aperta la domanda.

Niente cinismo né nichilismo, però, anzi un forte senso di immanenza che si desidera si manifesti. L’opera di Carver è ricca di un sentimento religioso che vorrebbe affermarsi, ma non trova la strada per farlo. Vale, come commento migliore al suo lavoro e alla sua vita, quanto lui stesso mise a suo epitaffio: “E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Sentirmi chiamare amato, sentirmi amato sulla terra”. Il racconto Cattedrale è giustamente il suo più noto, straordinario affermarsi dell’altro come incontro attraverso cui dare consistenza al proprio io: descrivere una cattedrale medievale a un non vedente. In una operazione che appare senza senso, c’è invece l’imprevedibilità della condivisione del rapporto umano che appare in modo sorprendente.



Così accade in un racconto meno noto, ma in assoluto uno dei suoi più belli, Una cosa piccola ma buona (che appare anch’esso nel film Short Cuts di Altman). È la storia, che non risparmia alcun dettaglio del dolore, di una coppia che perde l’unico figlio il giorno del suo ottavo compleanno. Vittima di un automobilista che non si ferma neppure a soccorrerlo, il bambino muore dopo alcuni giorni di agonia. La mattina del suo compleanno, la stessa dell’incidente, la mamma si era recata da un pasticciere di un centro commerciale a ordinare la torta per la festa di compleanno. Torta che ovviamente nell’incalzare dei drammatici eventi rimarrà dimenticata in negozio. L’unico che non se ne dimentica è il pasticcere che ignaro di quanto accaduto, comincia a tormentare la coppia con telefonate minatorie anonime a tutte le ore del giorno e della notte. Vuole i suoi soldi, quelli del saldo. Una cattiveria apparentemente senza senso, fino a quando la madre convince il marito a recarsi dal pasticciere. Le accuse di malvagità all’uomo sono ovvie, ma ecco che come sempre nei racconti di Carver accade l’imprevedibile. Il pasticciere saputo della morte del piccolo si scusa: non sono cattivo, dice, non sono malvagio. “Non so più come comportarmi a quanto pare” aggiunge. “Vi prego permettetemi di chiedervi solo una cosa, ve la sentite in cuor vostro di perdonarmi?”.

Ecco due umanità diverse ma accomunate dal dolore che si incontrano: la coppia che ha perso l’unico figlio, il pasticciere che non ha mai avuto figli ma ha desiderato averli, condannato a fare torte di compleanno per i figli degli altri, e in questo accadere “non sa più come comportarsi”. Ha perso la consistenza del proprio io, come rischia anche la coppia accecata dalla morte del figlioletto. Il dolore lo ha corroso e corrotto. Con un gesto imprevedibile, il pasticciere tira fuori qualche dolce: “Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa” dice “spero vogliate assaggiare i miei panini caldi. Dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola, ma buona in un momento come questo”. Il gesto apparentemente banale, ma caritatevole, la partecipazione al dolore altrui, l’immedesimarsi e l’offrire: niente di che, perché davanti al dolore più grande, la perdita di un figlio, che cosa si può fare o dire? Nulla. Solo, offrire “una cosa piccola, ma buona”. In quel pane condiviso, poi, uno può vederci anche il gesto eucaristico dello spezzare il pane. Come è la vita, fatta di dolori immensi e indicibili, e di cose piccole, ma buone che rendono la ferita sopportabile. 

La coppia e il pasticciere si ritrovano insieme tutta la notte, fino alle luci dell’alba, a condividere quei piccoli dolci. Si confortano e sostengono a vicenda. “Rimasero lì a parlare fino all’alba, un chiarore pallido e intenso che entrava dalle vetrine senza che venisse loro in mente di andarsene”. Una cosa piccola ma buona: e forse, anche nel dolore, l’inizio di una umanità diversa.