Cosa ha a che fare l’ideologia con la traduzione? Riteniamo ad esempio che le regole del buon tradurre siano pure e semplici regole di correttezza o forse hanno esse a che fare con ciò che in un’epoca sono le assunzioni di determinati gruppi o istituzioni? Oppure crediamo che l’idea corrente in occidente di cosa



Sia una buona traduzione sia del tutto estranea all’industria editoriale e al mercato globalizzato della letteratura che per sopravvivere deve vendere i propri prodotti in un certo numero di copie? Pensiamo che l’idea stessa di letteratura che produce un’epoca sia estranea al mercato massmediologico?

Direi che la traduzione non ha a che fare con l’ideologia se si crede che tradurre equivalga a riprodurre fedelmente il messaggio originale e tutte le sue funzioni. Ha a che fare con essa moltissimo se si tiene conto del fatto che nella gran parte delle traduzioni si devono prendere decisioni e risolvere problemi complessi utilizzando certamente fantasia, esperienza e intelligenza, ma anche essendo all’interno di un insieme di valori che regolano le istituzioni in cui la traduzione si pratica.



Ma cosa intendiamo per ideologia? Direi che per questo possiamo ricorrere all’aiuto di Michael Bachtin il quale ha osservato che l’ideologia è l’insieme di concezioni determinate dagli interessi di un gruppo sociale che in base a un sistema di valori costruisce i comportamenti e le credenze sia di quel gruppo che degli altri gruppi. Per Bachtin l’ideologia è inseparabile dai segni. Se intendiamo l’ideologia in questo senso, il fatto che essa abbia un’influenza sul lavoro del traduttore è se non ovvio, del tutto accettabile. 

Così è comprensibile che nel corso dei secoli gli individui e le istituzioni hanno applicato le proprie credenze al fine di produrre certi effetti in traduzione ed è possibile riscontrare un approccio ideologico alla traduzione in diverse delle più antiche testimonianze di traduzione a noi note.



Dunque le traduzioni sono inevitabilmente ideologiche perché la scelta di un testo fonte e l’utilizzo che si fa in seguito del testo di destinazione sono determinati dagli interessi, dagli scopi e dagli obiettivi degli individui o delle istituzioni che favoriscono quelle traduzioni. Ad esempio sappiamo che le traduzione sono regolate da un insieme di norme più o meno esplicite, come, per esempio, “non aggiungere né togliere nulla rispetto all’originale”. Queste norme sono costrutti sociali e culturali, e quindi hanno inevitabilmente un riflesso ideologico. Ad esempio non c’è nulla che vieti per principio di tagliar via quello che non ci piace da un originale. Del resto in certi periodi culturali, come quello del Seicento e Settecento francese la norma era proprio questa: i lettori dell’epoca si aspettavano che il traduttore adattasse il testo straniero ai loro gusti e apprezzavano questa opera di riscrittura.

Un caso citato spesso è quello di Antoine Houdar de la Motte (1672–1731). Sebbene non conoscesse il greco, nel 1714 la Motte utilizzò una traduzione dell’Iliade apparsa quindici anni prima per farne un’altra in versi. L’autore francese ebbe a dire, del suo modo di lavorare, che si era preso la libertà di cambiare “ciò che non considero di gusto”. E infatti la sua versione esclude tutte le parti sanguinose e cruente del poema che avrebbero offeso la sensibilità dei lettori che la Motte aveva in mente. Un esempio a noi più vicino è quello della traduzione di Monti. Anch’egli conosceva poco e male il greco, anch’egli riscrive profondamente il testo. 

Non ha senso condannare La Motte o Monti solo perché “traducevano” da una lingua che  conoscevano, o perché si sentissero in diritto di migliorare l’originale anche se si tratta di un testo sacro della nostra tradizione. Ricordo che La Motte era già membro dell’Académie Française da cinque anni quando compariva la sua Iliade depurata, mentre Monti era uno degli scrittori più importanti dell’epoca. I loro atteggiamenti sarebbero criticati oggi, ma erano una strategia possibile nel dibattito culturale di Parigi a cavallo fra il Seicento e il Settecento o dell’Italia di fine Settecento.

Questa storia conferma che le norme che si applicano alle traduzioni sono costrutti culturali e non leggi di natura, di conseguenza è scontato che cambino con una certa frequenza, in rapporto con gli altri discorsi che circolano nella cultura. Prendiamo per esempio l’altra norma moderna che prevede di non attribuire un testo tradotto ad altri se non all’autore dell’originale. Questa norma riflette e rafforza l’ideologia oggi prevalente, secondo la quale anche gli oggetti immateriali come una canzone o una poesia hanno un proprietario così come ce l’hanno una casa o un’automobile. Ma le cose non stanno così da sempre: il concetto di proprietà intellettuale è esso stesso un costrutto culturale. E infatti Chaucer si sentiva libero di tradurre i sonetti italiani senza necessariamente informare i suoi lettori che stavano leggendo una traduzione. Ma del resto all’epoca di Chaucer si riteneva che da un certo punto di vista le parole e le idee fossero di tutti. 

Dunque l’idea stessa di traduzione e le norme che la regolano sono oggetti culturali che entrano nel più ampio discorso ideologico nel quale vivono. E quindi, da questi punti di vista, l’ideologia ha molto a che fare con la traduzione. In questo senso l’aspetto ideologico indirizza le scelte degli autori e le forme che adottano. Un esempio emblematico è il caso della traduzione del Diario di Anna Frank in tedesco confrontato con la versione originale in olandese del 1947. Molte delle diversità fra le due versioni e le omissioni della versione tedesca dipendono essenzialmente da aspetti ideologici.

In effetti possiamo dire che esistono meccanismi interni ed esterni che controllano il sistema letterario. Quelli interni appartengono a critici, interpreti, professori e traduttori che determinano la marginalità di un’opera in quanto non letteratura o non gradita all’ideologia dominante. Quelli esterni sono quelli delle persone e delle istituzioni che controllano la produzione e ricezione della letteratura, che André Lefevere ha chiamato patronage. Il patronage implica un componente ideologico che riguarda la forma e il contenuto dell’opera, un componente economico che riguarda le vie con cui si forniscono mezzi di sussistenza all’artista, un componente di status con il quale l’artista che accetta il sistema dominante entra a far parte dell’élite sociale. 

Accettare il patronage presuppone che uno scrittore o un traduttore operi entro i parametri stabiliti dai mecenati e che abbia la volontà e la capacità di legittimare lo status e il potere dei mecenati stessi. Il sistema impone dunque degli obblighi che coinvolgono il linguaggio stesso in cui un’opera è scritta, le convenzioni del testo, i generi letterari, l’universo del discorso. Da questo deriva anche l’importanza delle istituzioni fra le quali è centrale il sistema educativo, come importanti sono le case editrici perché filtrano il tipo di letteratura che passa in un certo periodo e determinano lo stile della lingua da adottare in una traduzione.

L’ideologia della traduzione che prevale nel mondo occidentale è quella che Berman ha chiamato etnocentrica. È “etnocentrico” quell’atteggiamento che tende a leggere il rapporto con le altre culture alla luce della propria e la cultura straniera come qualcosa da rifiutare oppure da adattare e camuffare all’interno della cultura di appartenenza. In questo senso la traduzione tende ad essere essenzialmente captazione del senso al di là della forma. In quanto captazione del senso, la traduzione ha in sospetto la lettera. Tuttavia come ha notato ancora Berman la fedeltà al senso e l’infedeltà alla lettera straniera è però fedeltà alla lettera propria, quella in cui si traduce. Il senso è catturato in una lingua ma viene spogliato di tutto quanto non è trasferibile in questa. L’ideologia del primato del senso diventa l’ideologia della lingua in cui il testo viene tradotto. 

Tale ideologia dà alla propria lingua lo status di mezzo privilegiato, intoccabile. In esso il senso deve entrare senza far danni. Da questa posizione derivano due conseguenze: si deve tradurre l’opera straniera in modo che non si “senta” la traduzione e la si deve tradurre in modo di dare l’impressione che è ciò che l’autore avrebbe scritto se avesse scritto nella lingua d’arrivo. Berman ha sottolineato come questo desiderio conduca ad alcune tendenze deformanti che costituiscono l’ideologia della traduzione in occidente. Queste tendenze sono nella prassi comune di qualunque traduttore occidentale e corrispondono a precise scelte culturali e ideologiche. Come s’è detto abbiamo qui a che fare con l’idea secondo la quale il senso è un’invariante che può passare da una lingua all’altra lasciando intatto il suo nucleo centrale. 

Ma passa qui anche l’ideologia che considera il rapporto con lo straniero nei termini di conquista e appropriazione. Berman fa risalire questa ideologia a Roma che si manifesta anche nel rapporto con i testi e con le arti. Così come la statuaria romana è un’annessione di quella greca, anche il rapporto con i testi è dello stesso tipo. L’idea di traduzione di Cicerone ne è un esempio.

Queste considerazioni ci dicono che la traduzione entra proprio là dove l’ideologia si costituisce come modello di una cultura, nel rapporto fra linguaggio e mondo, dichiarando questo come costruzione del primo e il linguaggio un costrutto ideologico. La traduzione, in quanto ha a che fare con il materiale linguistico, inevitabilmente ha a che fare con le ideologie. In realtà ciò che è messo in gioco dalle trasformazioni prodotte dalla traduzione sono proprio le ideologie delle diverse culture. Ma non è tutto, perché la traduzione porta con sé inevitabilmente un confronto con i concetti condivisi da una determinata cultura, essendo questi una costruzione ideologica operata attraverso il linguaggio.