Il 7 dicembre 1965 veniva promulgata la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa che, di fatto, rappresenta il documento con cui si chiude il Concilio Vaticano II. Pur approvata a larghissima maggioranza resta, nella storia della sua elaborazione e anche in quella della sua ricezione fino ai giorni nostri, la traccia di una dolorosa incomprensione del suo effettivo significato, incomprensione che si estende, per altro, all’intero senso del Concilio Vaticano II e che ha la sua rappresentazione nel dibattito fra una interpretazione “tradizionalistica” e una interpretazione “progressistica” di esso, interpretazioni che, se pur con opposto apprezzamento, concordano però nel collocarlo sotto la categoria della “discontinuità”.
Di tale dibattito non ha senso qui discutere, e mi pare che quale giudizio definitivo possa valere ciò che, già nel 2005, Benedetto XVI ha detto: “Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio […]. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’ […]. Dall’altra parte c’è l’‘ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino”.
Ciò posto, il valore della Dignitatis humanae mi pare che possa essere esemplarmente concentrato in un punto essenziale: l’affermazione della non contraddittorietà di verità e libertà. Il Proemio della Dichiarazione contiene già in nuce questo sostanziale tema quando afferma che “tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono”. A prima vista potrebbe sembrare che in questo incipit la verità sia collegata al “dovere” con la conseguente esclusione della libertà, ma a ben vedere non è così. Il richiamo alla tradizionale dottrina del dovere di cercare e di aderire alla verità ha qui la necessaria funzione di chiarire che la rivendicazione della libertà religiosa non implica, nell’autocoscienza cattolica, alcun “relativismo”. Chiarito questo, il percorso risulta sgombro dal suo principale ostacolo e può iniziare la corretta discussione in termini positivi del tema. La Dichiarazione sceglie di collocare questa discussione su di un fondamento antropologico, ossia investigando la relazione fra l’uomo e la verità, e centrale in questa relazione risulta essere la funzione svolta dalla dimensione temporale: gli uomini, certo, hanno il dovere di aderire alla verità, ma ciò sta sotto una precisa condizione: “man mano che la conoscono”.
Che cosa significa questa introduzione del tempo nella relazione fra l’uomo e la verità? Se nella relazione fra l’uomo e la verità c’è di mezzo il tempo, ciò non è dovuto al fatto che la verità abbia una costituzione storica; piuttosto, l’introduzione del fattoretemporale è dovuta all’uomo, per il quale il tempo è una imprescindibile condizione ontologica. Ciò che caratterizza l’uomo è il fatto che il suo essere non è qualcosa di statico e di perfettamente compiuto, ma qualcosa che continuamente si avvera nel tempo non essendo ancora in atto quel che è in potenza, ma divenendolo continuamente.
Solamente attraverso questa dinamica l’uomo si può realizzare, e in essa risulta decisiva l’azione, perché l’azione, ossia l’atto di un soggetto libero e consapevole, è il momento principale attraverso cui il “divenire” umano si compie, a differenza di quello che avviene nelle altre creature che non sono né libere né consapevoli, ma guidate dall’istinto. Per tale motivo la verità deve accettare di affidarsi, per così dire, all’azione dell’uomo, ma ciò implica anche l’accettazione di manifestarsi nel tempo e attraverso il tempo, senza però che ciò significhi la sua generazione ad opera del tempo. Questo statuto della verità la mette in stretta connessione col fattore della libertà perché, come si è appena detto, non vi sarebbe azione se non si desse un agente libero. In conclusione, l’annotazione che la Dignitatis humanae fa in ordine alla relazione fra verità e tempo comporta l’introduzione e l’approvazione della libertà come momento necessario per la stessa verità, evitando però ogni riduzione storicistica della verità medesima.
Il più importante elemento che emerge da questo tema della relazione fra verità e libertà è la tesi che la sede del dramma della verità sia rappresentata dalla coscienza umana, e che ciò implica che la “forza” della verità debba essere intesa non in senso esteriore e diretto, ma in senso interiore e simbolico. La verità viene qui pensata come qualcosa che vive e si comunica solo nella misura in cui la coscienza umana, nel tempo, entri in rapporto con essa e l’accetti liberamente. Se, dunque, la relazione fra la libertà e la verità ha come sua sede la coscienza, la sua “forma” appropriata sarà quella del dovere morale, e con ciò il cerchio si chiude. La ricomparsa del tema del dovere così guadagnato, segnala che siamo di fronte non ad una posizione illiberale, ma a una concezione della libertà fortemente qualificata in senso anti-relativistico. Ciò che opera in questa concezione non è una visione autoritaria del rapporto fra la coscienza e la verità, ma una sostanziale fiducia sulla possibilità di una relazione positiva fra di esse, una visione fortemente anti-scettica da cui, per l’appunto, prende avvio il tema della doverosità della ricerca della verità.
Un’ultima annotazione deve essere fatta rispetto ad un altro rischio che l’appello alla coscienza potrebbe contenere, quello di un fondamentale solipsismo della stessa coscienza. La Dichiarazione ne è perfettamente consapevole e, dopo avere di nuovo ricordato che “ognuno ha il dovere e quindi il diritto di cercare la verità”, precisa che “la verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta”.
Dunque, la coscienza è, in forza della natura relazionale dell’uomo, essenzialmente comunicativa; per la coscienza che si misura con la verità non è data una prospettiva di titanica solitudine, ma quella di una feconda relazionalità, ossia il convincimento che il rapporto della coscienza individuale con la verità debba passare attraverso una relazione fra le coscienze, e quindi attraverso la conversazione fra le persone umane e la reciproca comunicazione delle rispettive ipotesi di verità. Qui, sia detto per inciso, riposa anche tutto il valore, o meglio la necessità umana dell’educazione.
In conclusione, nel suo nucleo essenziale la Dichiarazione ci ricorda che fra verità e libertà non vi è contraddizione di principio, ma possibilità di fecondo rapporto, a condizione, però, che l’uomo interpreti correttamente la propria natura che è quella di un essere comunionale, un essere costituito nella relazione, dalla relazione e per la relazione. Imago del Dio Uno e Trino.