L’inverno-primavera 2011-2012 a Mosca ha colpito sia gli osservatori che le stesse persone che hanno vissuto gli avvenimenti, come qualcosa di completamente inaspettato. Dimostrazioni di migliaia di persone, un radicale mutamento di atmosfera nella società dopo la lunga apatia del primo decennio del secolo e la confusa agitazione degli anni 90. Nella nostra pubblicistica politica sono tradizionali le metafore dell’inverno, della primavera, del disgelo e della gelata (i conservatori, alla stregua dello slavofilo Konstantin Leont’ev, solitamente propongono di «congelare la Russia»). Abbiamo vissuto una primavera in dicembre (vedi il documentario sulle proteste moscovite: «Inverno, vattene!»). In quei giorni avevo scritto: «Che cosa rallegra, in quanto sta avvenendo? Quello che rallegra e stupisce quando dopo il lungo inverno arriva la primavera. Finalmente! E nel contempo: possibile? Possibile che non tutto sia perduto? Infatti, si poteva anche aver già deciso che tutto era perduto…



Abbiamo visto di nuovo persone allegre, amichevoli, pacifiche, argute, disinteressate – persone che stanno bene insieme. Un movimento di protesta di cui non s’è mai visto l’eguale. Senza esasperazione, invidia, senza rivendicazioni per togliere qualcosa a qualcuno e poi redistribuirla. Senza dissolutezze e scandali, che sono la condizione normale di una rivolta, ma secondo il buon senso. Un buon senso che sa anche scherzare in maniera divertente, senza infierire. Prendiamo ad esempio una foto che mostra una donna anziana, minuta, dal volto gentile, che regge un cartello con un grande fiore arancio, simile alla camomilla, e la scritta “Il pericolo arancione sono io” (con questo nome – pericolo arancione, ovvero pericolo della “rivoluzione arancione” ucraina – gli avversari indicavano le proteste; era inoltre diffuso il paragone con la festosa Rivoluzione del febbraio 1917, a cui inevitabilmente sarebbe seguita una sanguinosa Rivoluzione di ottobre). 



Il volto di questa donna resta per me il simbolo del movimento «bianco». È la rivolta della gentilezza e della bontà contro malcreanza, ottusità e vergogna. Oltre che contro il deprimente cinismo che sembra essersi impossessato totalmente della nostra società (su cui l’élite culturale, purtroppo, non ha fatto che riversare il proprio scetticismo e oscurantismo). La questione non è semplicemente che nell’attuale stato di cose c’era troppo male, ma nel fatto che al suo interno non esisteva il bene. Non c’era di che respirare, perché la persona può respirare solo grazie a ciò che la eleva, e non a ciò che la inchioda.



Ma sono davvero cose del tutto inaspettate? Avevo intuito che stava per succedere qualcosa di nuovo, quando negli ultimi due-tre anni sono divenuti sempre più evidenti vari tentativi spontanei della gente di fare qualcosa di buono, e di farlo insieme. Spegnere gli incendi, raccogliere soldi per i malati, “offrire il caffè” (cioè pagare un caffè mettendolo a disposizione di chi ne ha bisogno)… E tutto questo senza il minimo moralismo, semplicemente, come dev’essere tra esseri umani. Questa fame di bene, di verità tra il fango e la menzogna, di amicizia tra vili «lotte intestine» o l’esaltazione della fatidica “privacy”, significa ai miei occhi il ridestarsi della dignità. Una persona e una società che conoscano il sapore della propria dignità non si lasciano più trattare dispoticamente. Non si riesce più a tenerle a bada agitando uno spauracchio: questo può funzionare in un altro ambiente, nell’ambiente della malavita. Qui invece la cosa appare ridicola e rivoltante, o più semplicemente indecente.

È sorprendente come il potere non riesca neppure a leggere il sentimento che spinge la gente a scendere in piazza. Le persone lo dicono apertamente: non permetteremo di lasciarci umiliare! Ma il potere non capisce cose di questo genere, conosce solo motivazioni da cavernicoli: qualcuno li ha pagati, è un sabotaggio, vogliono spartirsi qualcosa, ecc. Nella sua concezione di comportamento, motivazioni come l’onestà semplicemente non esistono. Sollevare “poveri” e “non istruiti” contro “ricchi”, “gente della capitale” e “troppo intelligenti”: questa è la sua risposta alla situazione. Da qualche parte questo “linguaggio classista” e le “ricerche del nemico”, da esso inscindibili, funzionano ancora, ma qui esso suona come una menzogna antidiluviana e ormai parodistica. E suona anche ridicolo, quando a parlare della “sazietà” degli scontenti sono milionari affogati nei soldi. Ma la cosa incredibile è che dei loro milioni qui la gente non sa che farsene. Prendetevi la vostra roba e lasciateci in pace. La ricchezza sporca è apparsa, finalmente, nella sua vera luce. Noi vogliamo un paese di cui non dobbiamo vergognarci. Noi sappiamo di che cosa ci si debba vergognare e di che cosa no. Non tollereremo l’impudenza.

Passa di mano in mano la famosa frase di Brodskij, secondo cui l’estetica è madre dell’etica. Ancora più indubbio è il fatto che la politica proviene dall’etica. Così era in Aristotele, così è rimasto sempre. Noi vediamo ora per le nostre strade una nuova etica, con cui la politica di un certo tipo è incompatibile. Una delle caratteristiche di quest’etica è la rinascita di una libera comunicazione tra le persone.

È difficile trovare una persona meno incline di me a partecipare ad azioni di massa di ogni genere. Del resto, trovare in Russia tipi come me non è certo difficile. Non c’è neanche bisogno di cercare. Tutti i miei conoscenti soffrono della medesima fobia del “collettivo”. Dico “soffrono”, perché in effetti si tratta di una malattia – probabilmente, per molti incurabile.

Uno degli orrori del passato sovietico era il “collettivo”. Che cosa facevano gli individui riuniti in folla? Marciavano, reggevano cartelli, ritratti, slogan preparati per loro, esprimevano il proprio sostegno a determinate “risoluzioni del partito”, denigravano chi di dovere e così via. Chiaro, non si radunavano di propria volontà (la minima riunione organizzata di propria volontà appariva sospetta). Ma una volta radunatisi, erano pronti a tutto. Entrando a far parte di un’iniziativa collettiva (assemblea sindacale, di partito, conferenza politica ecc.), ognuno perdeva il proprio volto. Non c’era più un “io” personale, si delegava la propria anima al “collettivo” e alla sua forza guida. Per questo, tra l’altro, l’uomo sovietico era così poco capace di pentimento: di che cosa doveva pentirsi? Era come tutti. Andava “dietro alla maggioranza” (come dice l’autore del testo dei nostri tre inni). “Lui personalmente” non decideva nulla. Il terribile quadro di raduni oceanici con la stessa espressione alienata su ciascun volto lo vediamo in numerose riprese documentarie. Nessuno di costoro sarebbe stato disposto a intercedere per un “altro” o per un’“alterità”. “Uno per tutti, tutti per uno”, era uno dei precetti del Codice morale dei costruttori del comunismo. Noi lo leggevamo così: “Uno per tutti, oppure tutti addosso a uno”. Quest’“uno”, a cui “tutti” davano addosso, era in genere la persona più dotata, più giusta – Pasternak, Sacharov… Una condanna unanime. Una fedeltà senza riserva. Böll lo chiamava “sacramento del bufalo”.

 

È difficile, dopo quest’incubo, non rifuggire ogni “collettivo” o la partecipazione a ogni tipo di compagnia. È un grave trauma sovietico. Se non vuoi tradire te stesso e ciò che ti è caro, fuggi ogni tipo di consorzio allargato.

Ecco quanto ci è rimasto dopo la nostra esperienza. L’uomo postsovietico è individualista all’estremo, come forse non ce ne sono mai stati nella storia. Questa è una prima variante; ma ne esiste anche un’altra. Il secondo tipo di uomo postsovietico (in realtà continua ad essere sovietico, anche se adesso si fa chiamare “ortodosso”), continua ad essere un “collettivista”, a voler aderire a una collettività che lo sollevi dalla responsabilità personale. E continuerà con piena convinzione (“senza riserva”, come si diceva nel linguaggio sovietico) a bollare qualcuno e a sostenere qualcun altro, a seconda di quello che gli diranno di fare. Continuerà come per l’innanzi a non tollerare chi la pensa diversamente. Perché a pensarla diversamente sono solo “nemici”, “estremisti” o “venduti”. È un uomo di sentinella sui confini: il nemico non passerà!

Ebbene, tornando ai “nastrini bianchi”: io ci vedo, innanzitutto, la liberazione da questa fobia della compagnia, dal trauma del collettivo. Ed è una liberazione prodottasi inaspettatamente. Vediamo un gigantesco consorzio di persone radunatesi liberamente, senza essere legate da nessun programma o ideologia concreta: perché tu sia contro umiliazioni e menzogne, non occorrono programmi di partito. Vediamo migliaia e migliaia di persone che non bollano, non denigrano nessuno. Persone normalissime. E che si sentono bene, libere, insieme. Nessuno ha assunto un volto “generale”, diverso, che non sia il suo proprio. Gente viva, senza affettazione, diversissima – eppure tutti insieme! E in mezzo a loro quegli “uni” a cui generalmente “tutti” davano addosso. E che forse per la prima volta negli ultimi cent’anni non sono più soli.

Oggi, in un momento in cui la scena politica è decisamente cambiata, posso confermarlo: abbiamo visto realmente un’altra Mosca, che ci ricordava com’era stata la città tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90. In questa rivitalizzazione della società c’era però anche un fattore di totale novità, che testimoniava come in Russia negli anni postsovietici sia apparso un nuovo tipo di persona o un’altra condizione interiore. Io lo chiamerei, nel modo più semplice, un uomo per il quale l’umanità sia la norma. Non si è ancora riusciti a trovare una definizione per questo vastissimo schieramento di «nastrini bianchi»: «cittadini arrabbiati (o allegri)», «classe creativa», «nuova intelligencija»… I sostenitori del movimento sottolineano il livello culturale e intellettuale dei partecipanti, gli avversari il loro benessere materiale («dimostrazioni di visone», «habitué dei caffè d’élite» ecc.). I sociologi, tuttavia, non ritengono che il censo sia un elemento caratterizzante del movimento; non era assolutamente un movimento di «ricchi», esattamente come non era un movimento di «atei»: al contrario, i dati sociologici mostrano che la percentuale dei credenti alle prime manifestazione era molto alta.

Il carattere festoso delle prime manifestazioni ha immediatamente portato alla ribalta nel dibattito il tema del carnevale (popolare in Russia in riferimento alle opere di Michail Bachtin). Il carnevale come forma di libertà, il mondo a gambe all’aria. Io penso che in realtà si trattasse dell’esatto opposto al carnevale «classico», che consente a che vi prende parte una libertà da alcune regole assodate, a condizione però che si conservi l’anonimato apparendo in sembianze diverse, cioè in maschera. «Questo adesso non sono io!», dice chi prende parte al carnevale. Chi partecipava alle «dimostrazioni bianche» faceva esattamente l’impressione opposta: era gente che scendeva in piazza a viso scoperto, gettando la consueta maschera sociale. Gente che insisteva proprio sul fatto di essere, di esistere così com’era. «Voi non vi immaginate neppure chi siamo», era uno degli slogan più famosi, rivolti alle autorità, che si vedevano nelle dimostrazioni. Un’altra differenza dal carnevale è che queste persone non volevano un «mondo alla rovescia», al contrario, chiedevano che si ritornasse alla norma della convivenza umana. Questa è una novità assoluta nella storia della Russia.

Si può chiamare questo movimento «occidentalista»? Anche qui, solo in un senso nuovo. Generalmente in Russia si collegava all’occidentalismo l’assunzione di determinati aspetti soltanto («nichilisti») dell’Occidente, e gli occidentalisti non parlavano dell’umanesimo occidentale, che ha radici cristiane. Ma, soprattutto, queste persone non si sono mai volute contrapporre in alcun modo all’Occidente, dicevano: «la Russia siamo noi», e noi viviamo insieme a tutti.

Io penso che l’elemento più importante e di maggior novità di questo movimento sia stato proprio la decisione di queste persone di dichiarare di essere loro il paese, la Russia, o almeno di appartenere a pieno diritto al suo popolo. Erano (eravamo) abituati a essere considerati dei reietti, degli emarginati, degli emigranti interni, e anche l’intelligencija aveva in qualche modo interiorizzato quest’autocoscienza. «Viviamo senza sentire sotto di noi il paese» (O. Mandel’štam). 

La reazione delle autorità, che ha trovato espressione in una serie di nuove leggi approvate durante l’estate, è volta esattamente a rimettere le cose al posto di prima, accusando tutti gli altri di essere «estranei» e nemici del popolo, di cui si cerca nuovamente di costruire un’immagine secondo il vecchio principio «classista». Secondo questo principio tutta Mosca è stata equiparata a un «territorio occupato dal nemico», per il quale bisogna battersi all’ultimo sangue, come fu con le truppe di Napoleone (a questo, alla vigilia delle elezioni, ha fatto appello il Presidente). Una volta vinte le elezioni, il Presidente ha fatto ingresso in una città completamente deserta, «ripulita» dai nemici.

Un’altra importantissima e nuova peculiarità del movimento «bianco» di protesta è il suo legame e, per molti aspetti, la sua origine da iniziative che non sono di protesta bensì umanitarie. Questa nuova autocoscienza si è manifestata pubblicamente per la prima volta nell’organizzazione di una trama di soccorsi volontari in occasione degli incendi dell’estate 2010, ma in realtà agiva anche prima, senza attirare l’attenzione, attraverso un gran numero di movimenti filantropici di «invisibili». Agli occidentali sembrerà strano che un’attività filantropica possa intendersi come un’attività di protesta. Per questo bisogna sapere che in epoca sovietica ogni libera iniziativa filantropica era vietata. Dopo aver cominciato istintivamente a «fare del bene», la gente ha percepito sia la propria forza, sia il valore del mettersi insieme, sia il gusto di queste cose, sia le proprie grandi possibilità di risolvere problemi che il potere e le strutture esistenti non sono in grado di affrontare. Questo modo di realizzarsi attraverso opere buone è il sintomo più indicativo del fatto che in Russia sta nascendo una nuova società.

Questa circostanza non è evidentemente passata inosservata alle autorità, che intraprendono tentativi d’ogni genere per ostacolare e impedire ogni movimento di volontariato, e non soltanto in difesa dei diritti umani. Sta preparandosi un nuovo inverno politico, che si presenta, a sua volta, come un movimento etico in favore dei «valori tradizionali», del patriottismo e di un’ortodossia sui generis, che dipinge i propri nemici come liberali amorali e anticlericali; e purtroppo queste sue affermazioni non sono del tutto infondate.

Ho l’impressione che all’interno di questo movimento sia iniziata una sorta di rottura e alterazione a partire da un evento che per mesi ha assorbito l’attenzione generale, la cosiddetta «preghiera punk» nella chiesa di Cristo Salvatore; o meglio, a partire dalla reazione a questo gesto, dalle misure repressive messe in atto nei confronti delle protagoniste e dalle assurde uscite dei «difensori dell’ortodossia». L’estetica di questa vicenda non ha niente a che vedere con le caratteristiche del movimento dei nastrini bianchi. Sono riapparse le maschere, le consuete provocazioni scandalistiche dell’arte attuale, il «rivoluzionarismo» ai limiti della criminalità già descritto da Dostoevskij e Leskov (non è un caso che movimenti radicali come quello di Limonov o il gruppo «Guerra» guardassero con indignazione le manifestazioni, ritenendole borghesi: in effetti, in questa società sarebbero stati messi ai margini). 

La novità di ciò che c’era di realmente nuovo nel movimento della «nuova intelligencija», è stata sepolta sotto questo interminabile scandalo. E la novità, come ho detto, consisteva nella rivendicazione dell’umanità e della norma come fondamento della convivenza umana, contro la criminalità e i suoi boss. Nelle azioni odierne di protesta si stanno radicalizzando sempre di più le «sinistre», i «rossi», gli «anticlericali», con i quali la maggioranza della «nuova intelligencija» non può identificarsi. Negli interventi del potere, nelle sue iniziative legislative emerge sempre più distintamente il tentativo di restaurare il neostalinismo e di isolare il Paese dal mondo. La Chiesa finisce per trovarsi, di fatto, in una situazione di guerra civile con i «liberali», la cui «icona» viene oggi identificata nelle Pussy.

Che cos’è successo, dunque: è stato un altro breve disgelo, oppure l’inizio di un lungo e serio rinnovamento della società? A questo oggi non mi arrischio a rispondere.

 

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