Il Concilio Ecumenico Vaticano II, di cui si è celebrato il cinquantesimo anniversario dell’apertura, è stato un evento che ha profondamente segnato la storia della Chiesa cattolica contemporanea e, più in generale, ha inciso in misura significativa sulla recente evoluzione del sistema di valori dell’Occidente. Basti pensare che, a soli tre anni dalla conclusione dell’assise vaticana, in Italia come nel resto del mondo, il ’68 avrebbe segnato una profonda, e per certi versi drammatica, cesura tra le istanze di rinnovamento sociale avanzate dalle nuove generazioni e l’allora vigente establishment politico-culturale. Esiste dunque un collegamento tra questi due accadimenti fondamentali della seconda metà del Novecento? Probabilmente sì, ed è individuabile nella messa in discussione del concetto di autorità, al quale tutta la società aveva, in buona sostanza, fatto riferimento sino alla Contestazione.
Allora, cosa è successo? Giovanni XXIII, certo uomo di Chiesa tra i maggiori del Novecento, tutt’altro che rispondente nelle sue visioni ecclesiali e pastorali a quell’immagine di “progressista” tout court che gli sarebbe stata in seguito applicata da taluni osservatori e interpreti, quella domenica romana del 25 gennaio del 1959 nell’annunciare l’evento conciliare aveva affermato di voler adottare «… una risoluzione decisa per il richiamo di alcune forme antiche di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina, che nella storia della Chiesa, in epoca di rinnovamento, diedero frutti di straordinaria efficacia, per la chiarezza del pensiero, per la compattezza della unità religiosa»; un piano d’azione che, ultimamente, avrebbe dovuto condurre «all’auspicato e atteso aggiornamento del Codice di Diritto Canonico». Non pare proprio questo, pertanto, quel teorema di “rottura” con la tradizione sulla cui reiterata evocazione si sarebbe di lì a poco costruita l’interpretazione paradigmatica del Vaticano II in termini di “novità”.
Papa Roncalli, d’altro canto, nella reazione assai perplessa dell’episcopato da lui riunito presso la basilica di S. Paolo fuori le Mura, annunciò insieme il Sinodo Romano e il Vaticano II, e non si sarebbe probabilmente immaginato un’evoluzione del dibattito conciliare quale si è poi verificata dopo la sua morte; beninteso, non tanto del Concilio in sé, che per lo stesso dire di protagonisti considerati della parte “non progressista” dell’episcopato italiano, in particolare del Card. Giuseppe Siri – allora presidente della Conferenza episcopale italiana –, si era alla fine concluso con il necessario equilibrio tra esigenze di rinnovamento liturgico e pastorale, e fedeltà alla tradizione apostolica (Siri scriverà nel 1966: «senza questo Concilio temo che non avremo orizzonti»). Piuttosto dell’“evento Concilio”, quale fu raccontato per la prima volta dai media, dai giornali e dalle televisioni, dove si erano avallate esagerazioni (e talvolta persino leggende raccolte presso i taxisti romani che accompagnavano vescovi e cardinali in Vaticano …), circa lo scontro tra la linea “discontinuista” (“di sinistra” !), che sarebbe stata in favore di un nuovo protagonismo del collegio episcopale e soprattutto di un profondo stemperamento delle differenze tra ordinati e laici, e quella “continuista” (“di destra” !), tesa di contro a difendere, a spada tratta, i presupposti del primato petrino quali erano stati fissati nel Vaticano I nel secolo precedente, ignorando ogni esigenza di rinnovamento pastorale.
Fu così un racconto inedito e peraltro giornalisticamente accattivante quello offerto dalla stampa al mondo – si affermò, di fatto, proprio in questa occasione la professione del “vaticanista” – incline a offrire un’immagine un po’ stereotipata se non addirittura macchiettistica del confronto dottrinale tra i padri, in cui risultava in sostanza che l’istituzione, la quale più di quasi tutte le altre era stata percepita sino allora nella sua sacralità e intangibilità, vedeva posti in discussione i propri principi di autogoverno e l’autorevolezza medesima dei propri componenti. Così anche l’importante, legittima rivalutazione del laicato che sarebbe confluita in tutta la sua serietà ecclesiale in Lumen Gentium, ponendo anche le premesse per la maturazione dei nuovi movimenti ecclesiali della seconda metà del Novecento, fu presentata come una sorta di “rivoluzione” contro la gerarchia e il magistero.
Nell’Italia del boom economico l’impatto di questo messaggio dovette risultare dirompente, soprattutto sui giovani: era stato messo in discussione il principio di autorità persino dalla Chiesa, mentre dagli Usa giungevano gli echi delle rivendicazioni afroamericane e delle contestazioni antigovernative alla campagna militare del Vietnam. Bastò forse questo: gli universitari, i giovani in generale − e soprattutto le giovani – che erano cresciuti nel clima rasserenante della ricostruzione ma ancorato ai ruoli ottocenteschi, trovarono altre domande esistenziali e sociali, che in alcuni casi assunsero la forma di rivendicazioni rivoluzionarie. Negli anni che seguirono, dalla liberalizzazione sessuale alla trasformazione dei meccanismi famigliari, dal lavoro alla partecipazione culturale e politica, fu un intero “mondo antico” ad essere sorpassato da questo “tzunami” generazionale. E la Chiesa stessa, appena conclusa una forte esperienza comunque riformatrice quale l’assise ecumenica, si trovò a dover rincorrere una società civile che, pure per responsabilità a lei stessa estranee, le stava di nuovo sfuggendo.
Oltre al Concilio “dei giornali”, c’è stato – e c’è tutt’ora – quello degli storici. Il pontefice che condusse a termine il Vaticano II, il bresciano Montini, aveva dato disposizione che l’archivio del Concilio fosse da subito aperto agli studiosi, e in effetti il clima generale della comunità scientifica fu da subito caratterizzato dalla necessità di “fissare” e diffondere il corso degli eventi ed il loro significato, in primis attraverso i report cronachistici (i resoconti di Giovanni Caprile per La Civiltà Cattolica) mentre procedeva l’editazione degli Acta et documenta concilio oecumenico da parte della segreteria della commissione centrale del Concilio, e poi in opere storiograficamente sempre più impostate, alcune già alla fine degli anni 60. Allora, nel repentino fiorire degli studi teologici e storico-interpretativi, la Chiesa si predispose faticosamente ad attuare i dettami conciliari contenuti nelle costituzioni dogmatiche – una strada ancora oggi da completare, come ad esempio ammoniva già nel Duemila l’allora rettore dell’Università del Laterano e oggi arcivescovo di Milano, il card. Angelo Scola.
Negli anni 90 il dibattito si animò soprattutto per la pubblicazione della Storia del Concilio diretta da Giuseppe Alberigo, opera imponente per mole e numerosità dei contributori, radunante una serie di fonti (diverse orali) raccolte anche a latere del processo di approvazione degli schemi; nella “quarta” della nuova edizione, pubblicata quest’anno in occasione del cinquantenario conciliare, si legge che «… il segreto dell’opera, del suo perdurante interesse, è quello di avere storicizzato il concilio, rinunciando a letture pacificanti o incolori che costituissero un generico appiattimento di quella che fu invece una realtà viva, dibattuta, complessa, costellata di lotte e compromessi, di passioni e delusioni, ma anche di prospettive aperte che tuttora restano tali». Storicizzare l’evento, appunto, e secondo alcuni il rischio è stato però quello di arrivare persino a condizionarne le decisioni, ovverosia influenzarne la ricezione, specialmente attraverso la sua presentazione di fondo come evento di rottura piuttosto che di aggiornamento nella continuità.
Vale la pena qui rilevare che mai come nel caso dell’attuazione del Concilio i testi storico-interpretativi dell’evento possano aver finito per costituire materiale “sensibile” poiché, nel dare una rilettura delle vicende che portarono attraverso il dibattito in aula a fissare i testi definitivi degli schemi, essi potenzialmente andavano a toccare un processo recettivo ancora in corso dall’esterno, cioè interagendo sulle scelte pastorali, al di là dei meccanismi propri di trasmissione istituzionale della Chiesa dalla gerarchia al popolo di Dio. Ciò non significa, ovviamente, che non bisogna occuparsi della storia del Vaticano II, o che sia stato un errore farlo in passato, anzi la coscienza dell’evento è in sé probabilmente uno degli elementi principali utili alla comprensione della Chiesa contemporanea. Solo è necessario fare attenzione a considerare ogni lettura, in quanto tale, come una prospettiva condotta dagli studiosi con la propria sensibilità all’interno di una questione ecclesiale complessa, soprattutto non riducibile ai cliché propri della storia politica, laddove è chiaro che l’esperienza cattolica ha a che fare con una realtà a molti livelli – il più alto per chi ci crede, la fede in Gesù Cristo – e non si può pertanto costringere in visioni “parlamentarizzanti” riconducibili all’evocazione di presunte “destre” e “sinistre” ecclesiastiche.
Vi è infine un ulteriore recente sviluppo nella storiografia conciliare – e più in generale nella storia della Chiesa del Novecento – che deve far riflettere circa il rischio che comporta l’adozione di concetti definitori, ostili al normale lavoro revisionistico della ricerca: la crescente disponibilità di nuove fonti, spesso provenienti dai fondi personali e diocesani dei singoli presuli e prelati, convolti a suo tempo nell’Assise o dalle conferenze episcopali, che in molti casi se non vanno a smentire totalmente le tesi di fondo sull’evento conciliare, ne arricchiscono di sfumature spesso essenziali la trama storica, e non per provocarne un “appiattimento”, ma renderne la complessità in modo più attendibile. Ciò, ultimamente, per rendere conto del funzionamento naturale – e per chi ci crede soprannaturale – del corpo della Chiesa, che ricava attraverso la storia dalla molteplicità delle posizioni assunte dai propri protagonisti una sintesi sempre superiore anche se, soprattutto nei momenti di grande confusione, si può far fatica a intravederla tra le nubi stratificate della postmodernità.
Forse per questo, anche un po’ diversamente da quanto sostenuto recentemente da De Rita e Diotallevi sul Corriere della Sera, è ancora utile e persino necessario «rimestare da dentro» il Vaticano II – e del resto il lavoro dello storico è proprio quello di tornare su fonti e interpretazioni – mentre risulta semmai un poco inattuale, questa sì, la vecchia dipintura di clero e laicato divisi tra innamorati del Concilio e suoi detrattori, «fra progressisti e conservatori – afferma l’articolo citato –, cioè fra chi considera sempre più attuale quella mobilitazione di fede collettiva che il Concilio avviò; e chi considera invece necessario un anche crudo revisionismo delle scelte conciliari». Perché la Chiesa non è mai stata un parlamento, nemmeno durante il Concilio, ed anche le posizioni e i caratteri umani i più diversi e contrastanti, persino negli atteggiamenti tattici e politicheggianti che possono aver assunto, non persero mai la coscienza di essere parte di un solo corpo mistico destinato alla Salvezza.